Carlos Santiago-Caballero è professore ed accademico presso l’Università Carlos III, a Madrid, ed ha un Ph.D. in Storia economica dalla London School of Economics and Political Science (LSE). Si è specializzato in diversi campi: dalla storia agraria alla disuguaglianza economica, fino all’economia dello sport. In questa intervista, egli parla di alcuni nodi centrali dell’attuale situazione
Carlos Santiago-Caballero è professore ed accademico presso l’Università Carlos III, a Madrid, ed ha un Ph.D. in Storia economica dalla London School of Economics and Political Science (LSE). Si è specializzato in diversi campi: dalla storia agraria alla disuguaglianza economica, fino all’economia dello sport. In questa intervista, egli parla di alcuni nodi centrali dell’attuale situazione economica in Spagna e in Europa.
K metro 0 – Madrid – Intervista di Alfonso Aledo Díaz e Iván Tubío Sanlés
Professor Santiago-Caballero, qual è la sua visione della situazione dell’economia spagnola? E quanto contano Paesi come Spagna e Italia nell’economia europea?
Contano sempre meno, se guardiamo indietro, agli anni precedenti alla crisi economica. Oggi, questi Paesi giocano un ruolo meno importante nella più generale economia comunitaria. È vero che il Prodotto interno lordo della Spagna sta crescendo ad un ritmo più veloce del resto d’Europa, ma dobbiamo essere consapevoli che ciò accade perché la Spagna è crollata molto durante la recessione economica. Anche se il tasso di crescita della Spagna oggi è raddoppiato, ci vorranno ancora più di quindici anni prima di raggiungere livelli relativi di Pil paragonati ai Paesi nordeuropei analoghi a quelli precedenti al 2008. La realtà è che i Paesi mediterranei hanno perso d’importanza e hanno bisogno di molto tempo per recuperare.
Il mese scorso il leader di Podemos, Pablo Iglesias, ha raggiunto un’intesa con il governo di Pedro Sanchez per aumentare le tasse sui redditi superiori ai 140mila euro l’anno – appena lo 0,46% dei contribuenti – fino alla soglia massima del 53%. Cosa pensa di questa misura? Si tratta di passi corretti per migliorare il welfare o è solo propaganda politica?
Sono solo noccioline, cambiamenti davvero minuscoli. L’intesa originaria prevedeva un aumento del prelievo fiscale per i redditi superiori a 60mila euro l’anno, con l’intenzione di fare cassa, non perché essi ritenevano che una persona che guadagna 60mila euro, uno su quattro, fosse ricca. Su quei livelli era efficace per aumentare il gettito fiscale e fare cassa, ma si trattava di una misura impopolare. Per questo hanno aumentato la soglia a 140mila euro, con un effetto concreto minimo. È una modifica politica. Nonostante ciò, è una misura ugualitaria: i più ricchi devono pagare di più. Il problema è che le persone con altissimi redditi prendono questo denaro da fonti non collegate al lavoro, così finiscono per non pagare questa tassa del 53%.
La Pac (Politica agricola comune), che ha l’obiettivo di garantire ai consumatori il giusto prezzo e agli agricoltori un equo compenso, assorbe gran parte dei fondi Europei. Ha senso investire più del 50% di aiuti comunitari in un settore che produce appena il 3% di Pil e limita le esportazioni, aumentando i prezzi?
La Pac è fondamentalmente protezionista, per effetto degli aiuti economici e delle barriere commerciali imposte ai prodotti provenienti da altri Paesi, per evitare che aggrediscano i nostri mercati, come ad esempio accade con la carne argentina. Il consumatore europeo paga il doppio delle tasse per finanziare la Pac, e un prezzo più alto dei prodotti. So bene che questa misura venne creata dalla Seconda guerra mondiale per garantire l’autosussistenza europea, ma oggi non ha più alcun senso. Questo genere di doppia protezione tenderà a scomparire non appena i trattati sul libero scambio saranno firmati, e solo quegli agricoltori che sono stati in grado di essere produttivi prevarranno.
Poche settimane fa, il Fondo monetario internazionale ha segnalato il rischio dell’elevato debito mondiale complessivo. Lei crede che sia possibile ridurre il debito promuovendo allo stesso tempo la crescita economica?
Il problema di tali misurazioni del Fmi è che esse includono sia il debito pubblico che quello privato, ma i governi, nelle società democratiche, possono implementare solo poltiche in grado di ridurre il debito pubblico. In tal modo, innanzitutto dobbiamo osservare fino a qual punto il debito elevato è frutto dell’indebitamento privato e quale di quello pubblico. Se il primo è la causa principale della crescita del debito, i governi e le banche centrali allora hanno meccanismi differenti per agire sulla politica monetaria, aumentando o riducendo i tassi di interesse. Tuttavia, a proposito del debito pubblico, il fatto più rilevante non è il debito in sé, ma la capacità potenziale di un Paese di restituire il debito. Ad esempio, il Giappone ha avuto il debito pubblico più elevato del suo Pil per anni, e tuttavia resta un Paese stabile. In ogni caso, per ogni valutazione del debito dobbiamo tener conto di come venga investito. Non è la stessa cosa il risultato dell’investimento in capitale umano o in infrastrutture. Di conseguenza, il debito non è in sé buono o cattivo. Il punto importante è cosa facciamo col debito e se vi è un effetto moltiplicatore per l’economia del Paese grazie al prestito ottenuto. In conclusione, il debito non promuove automaticamente la crescita, ma quest’ultima dipende dal modo in cui viene utilizzato e di quale debito si tratti. Di solito, tendiamo a credere che un debito più elevato conduca a una crescita più più bassa. Ma non è ciò che, di fatto, abbiamo osservato. Le prove dimostrano che austerità e politiche di contrazione della spesa durante i periodi di recessione sono pericolose.
Quali sono i principali rischi potenziali dei livelli elevati di disuguaglianza in Europa e in Spagna e come pensa che la disuguaglianza possa colpire la stabilità democratica?
Dobbiamo dare un’occhiata alla situazione in Brasile, negli Usa e in Italia. I movimenti politici populisti non solo dovrebbero spaventare la classe media e gli operai, ma anche i ricchi, perché l’instabilità politica è negativa per tutti. Così, gli attuali livelli di disuguaglianza e lo scontento di certi gruppi, per effetto di una pessima distribuzione dei benefici della globalizzazione non solo sono rischiosi per la nostra salute democratica ma sono negativi anche per i responsabili di questa disuguaglianza: quelle classi più ricche che hanno tratto vantaggio dall’economia globalizzata, economia che può essere drammaticamente colpita dalle politiche promosse dai leader populisti. Di conseguenza, è importante istituire meccanismi per distribuire i profitti del mercato globale.
Secondo economisti come Kenen o Mundel, il problema principale dell’Unione europea è l’assenza di mobilità nel mercato del lavoro e la scarsa integrazione fiscale e finanziaria. In che modo questo influisce sui livelli di disuguaglianza tra i Paesi europei? Lei crede che la Ue abbia preso le misure necessarie per aumentare tali meccanismi?
No, non lo stanno facendo. Prima di tutto, l’Euro non è stata una moneta correttamente impostata quando venne creata perché un’area con valuta comune richiede certi aspetti che l’Euro non possiede. Uno dei criteri necessari è l’armonizzazione fiscale. In assenza di questo meccanismo, quando uno choc esterno, come la crisi del 2008, colpisce l’Europa, gli effetti su tutta l’Unione sono asimmetrici. In questo caso, il Sud è stato colpito più duramente dalla recessione, rispetto al nord e al centro Europa. Ciò è accaduto perché in un’area con valuta comune l’adattamento dopo uno choc deve aver luogo nell’intera area, mediante i tassi di inflazione dei Paesi meno colpiti dalla crisi o mediante il ricorso alla deflazione dei paesi collassati. Invece, i paesi più ricchi non hanno assunto alcun livello di inflazione e i Paesi meridionali sono stati costretti a dare avvio ad un processo deflattivo. In ogni caso, sappiamo che vi sono Paesi che a causa degli interessi nazionali si oppongono a qualunque tipo di miglioramento dell’Euro. Pertanto, sembra che questa situazione debba continuare così com’è oggi.