K metro 0 – Mosca – Per ora è un dialogo a distanza. Con toni anche molto aspri. Ma almeno Kiev e Mosca si sono scambiati dei segnali. E nelle parole di Putin e, soprattutto, in quelle di Zelensky non si può non cogliere una novità di fondo: se non è cominciata ancora una trattativa,
K metro 0 – Mosca – Per ora è un dialogo a distanza. Con toni anche molto aspri. Ma almeno Kiev e Mosca si sono scambiati dei segnali. E nelle parole di Putin e, soprattutto, in quelle di Zelensky non si può non cogliere una novità di fondo: se non è cominciata ancora una trattativa, è cominciata la sua fase preparatoria. Quella in cui ciascuno dei contendenti alza paletti che sembrano insormontabili, ma quello che conta è che la prospettiva di un negoziato ormai non è un tabù. Le concessioni più grandi le ha fatte il presidente ucraino quando, in un’intervista al giornale francese “Le Parisien”, ha ammesso che “il suo esercito non riuscirà mai a riconquistare la Crimea e il Donbass”. Un modo per preparare l’opinione pubblica a una rinuncia territoriale che, finora, era stata sempre esclusa in nome della “difesa dell’intangibile integrità nazionale”.
A questa apertura, il presidente russo ha risposto nella tradizionale intervista di fine anno trasmessa in tv. Ha confermato la disponibilità di Mosca a una trattativa, ma ha escluso che al tavolo del negoziato possa sedere l’odiato presidente Zelensky che Putin considera “illegittimo” perché il suo mandato è scaduto il 20 maggio scorso ed è stato prolungato soltanto per lo stato d’emergenza in vigore in Ucraina. “Se ci saranno nuove elezioni e se Zelensky sarà rieletto, sono pronto a trattare anche con lui”, ha detto Putin, ben sapendo che elezioni presidenziali con una guerra in corso sono un’ipotesi semplicemente irrealizzabile. Volodymyr Zelensky, da parte sua non è stato più tenero. Alla fine dell’incontro con i leader europei riuniti a Bruxelles ha definito Putin “un pazzo che parla di denazificare l’Ucraina mentre è lui il vero nazista di oggi”.
Cannonate verbali, da una parte e dall’altra. Ma dietro a tanto clamore i due fatti politici più rilevanti restano l’ammissione che Zelensky ha fatto della impossibilità di recuperare con le armi la Crimea e il Donbass occupati dalla Russia e l’ammissione fatta da Putin che nella sua intervista in tv ha detto che gli obiettivi di Mosca in Ucraina “sono stati quasi completamente raggiunti”. Come dire che Vladimir Putin è pronto ad avviare un negoziato in tempi rapidi e che Zelensky non considera più il recupero di Crimea e Donbass una condizione irrinunciabile per arrivare alla pace. A questo punto si può dire – o almeno si può sperare – che l’inizio di una vera trattativa sia questione di mesi.
E che Donald Trump, una volta entrato alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo, “inauguration day” della sua seconda presidenza, riuscirà a convincere Zelensky e Putin a negoziare la fine della guerra. In una conferenza di pace alla quale parteciperà anche l’Unione europea che potrebbe, forse, impegnarsi a fornire un contingente di “peacekeepers”, così come si è già impegnata a partecipare alla ricostruzione delle zone devastate dai bombardamenti. Senza correre troppo con l’immaginazione, è verosimile che Trump consideri il peso dell’amicizia – o quantomeno della normalizzazione – con Putin, maggiore della difesa a oltranza di Zelensky. Nella sua campagna elettorale, aveva più volte detto che sarebbe riuscito a riportare la pace tra Russia e Ucraina “in ventiquattro ore”. Di sicuro gli ci vorrà più tempo. Ma se questo obiettivo non si misurerà in ore, sarà questione di qualche settimana o di qualche mese.