K metro 0 – Medio Oriente – Due giorni dopo l’attacco di venerdì notte 12 aprile, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha cercato di insistere sul punto, affermando che Teheran aveva informato gli Stati Uniti che il suo attacco a Israele sarebbe stato “limitato” e aveva anche informato i vicini regionali dei suoi
K metro 0 – Medio Oriente – Due giorni dopo l’attacco di venerdì notte 12 aprile, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha cercato di insistere sul punto, affermando che Teheran aveva informato gli Stati Uniti che il suo attacco a Israele sarebbe stato “limitato” e aveva anche informato i vicini regionali dei suoi attacchi programmati con 72 ore di anticipo. Il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha così esortato gli alleati di Israele ad apprezzare che le azioni dell’Iran sono state “proporzionate e responsabili” in contrasto con sei mesi di violazioni israeliane del diritto internazionale.
La Cina intanto, ritiene che l’Iran sia in grado di “gestire bene la situazione e risparmiare ulteriori disordini alla regione, salvaguardando al contempo la sua sovranità e dignità” nazionale. Lo ha detto il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, al termine della conversazione telefonica avuta ieri con l’omologo iraniano, Hossein Amir-Abdollahian.
Gli appelli alla moderazione si sono moltiplicati, nel timore che il confronto possa infiammare ulteriormente le tensioni in Medio Oriente e portare i due nemici sull’orlo della guerra. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz – durante una visita in Cina – ha chiesto a Israele di contribuire a smorzare la situazione e di non gettare via il successo ottenuto intercettando quasi tutti i droni e missili lanciati sul Paese.
All’interno del governo israeliano, ci sono richieste di un’azione rapida e dura, in particolare da parte di politici dell’estrema destra. Gli integralisti, tuttavia, non sono rappresentati nel gabinetto di guerra. “La cosa migliore da fare nel caso di Israele è riconoscere che questo è stato un fallimento per l’Iran”, ha dichiarato il ministro degli Esteri britannico David Cameron a Times Radio.
Dunque, la guerra fantasma tra Israele e Iran si è trasformata in una guerra vera. L’Iran ha sferrato un attacco senza precedenti e dal proprio territorio, evitando di affidarsi a Hezbollah o altri gruppi filo-Teheran nella regione, ma al contempo è stata una risposta ampiamente anticipata che non ha provocato danni tali da giustificare una contro-reazione israeliana. A livello politico, tuttavia, le conseguenze sono molto significative per la Repubblica islamica, come anche per Israele e in generale per i futuri scenari del Medio Oriente. Queste alcune delle considerazioni dell’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, guidato da Giampiero Massolo.
Le Forze di difesa israeliane hanno fatto sapere che il 99% dei circa 300 droni e missili lanciati dall’Iran sono stati intercettati. L’Iran ha lanciato circa 170 droni suicidi, nessuno dei quali è entrato nello spazio aereo israeliano, abbattuti perlopiù nei cieli di Siria e Giordania e 30 missili da crociera, di cui 25 distrutti dall’aeronautica israeliana e dalle forze statunitensi e britanniche dispiegate nella regione. Teheran ha lanciato anche 120 missili balistici, l’arma più temuta dell’arsenale iraniano perché capace di raggiungere lo Stato ebraico in tempi brevi, anziché dopo diverse ore. Molti sono stati abbattuti dal sistema di difesa aerea Arrow, e i pochi che sono riusciti ad aggirare le barriere israeliane hanno colpito la località di Nevatim, a est di Be’er Sheva, sede di una base aerea (obiettivo militare, ndr) nel deserto del Negev, senza provocare vittime. L’attacco è stato preceduto e preannunciato da giorni di indiscrezioni a mezzo stampa che hanno neutralizzato qualsiasi effetto sorpresa. In particolare, nella giornata di venerdì 12 aprile, il Wall Street Journal ha riferito che l’incursione si sarebbe verificata entro 24-48 ore. Questo battage, avvenuto persino attraverso contatti indiretti tra Usa e Iran nel tentativo di evitare un allargamento del conflitto, ha permesso allo Stato ebraico e ai suoi alleati di prepararsi in maniera adeguata.
Dimostrazione di forza o debolezza? Si chiede sempre Ispi. Mentre l’attacco era ancora in corso, l’account X dell’ambasciata iraniana a New York (Nazioni Unite, ndr) scriveva in un post: “L’azione militare dell’Iran è stata una risposta all’aggressione del regime sionista contro le nostre sedi diplomatiche a Damasco. La questione può dirsi conclusa”. Si tratta di un chiaro invito a Israele affinché dichiari ‘pari e patta’, senza ulteriori complicazioni.
Per lo Stato ebraico c’è però un messaggio da leggersi sullo sfondo: se Teheran non avesse dato tutto questo preavviso e tempo per prepararsi, Israele avrebbe potuto subire seri danni al suo territorio (che comunque si è avvalso del sostegno americano e britannico per rispondere efficacemente). Inoltre, come dimostra la lunga lista di colloqui avuti nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri Amir-Abdollahian, Teheran ha recuperato linee di dialogo e interlocuzioni con attori occidentali (tra cui Italia e Germania), dando prova del proprio standing internazionale. Ciononostante, l’esito ambiguo di un attacco così imponente rischia di sortire l’effetto contrario, non consentendo il ripristino di alcuna deterrenza e proiettando su Teheran un’immagine di debolezza che potrebbe spingere Israele a un’ulteriore contromossa.
Dal punto di vista israeliano, la risposta arrivata dall’Iran ha una triplice utilità. Da un lato permette di distogliere l’attenzione, interna e internazionale, dal ritiro delle forze di terra dalla Striscia di Gaza senza aver sconfitto Hamas, né tantomeno liberato tutti gli ostaggi israeliani; dall’altro lo Stato ebraico ottiene di nuovo ampio consenso e sostegno internazionale (da parte dei paesi arabi e occidentali, ndr) in una fase di isolamento e insoddisfazione crescente per la nefasta operazione nella Striscia di Gaza, che ha provocato finora quasi 34mila vittime palestinesi. Infine, la crisi innescata dal raid sull’ambasciata iraniana a Damasco giustifica la narrativa che vede l’Iran come la ‘principale minaccia’ per la sicurezza della regione. Tuttavia, se la leadership iraniana non può permettersi una guerra aperta, anche perché impegnata a contrastare i continui attacchi terroristici nella provincia del Sistan e Baluchistan e a risolvere annosi problemi interni sia di natura economica sia sociali, Netanyahu potrebbe cogliere occasione per alzare il livello di scontro e allontanare la fine, auspicata dalla maggioranza degli israeliani, della sua esperienza di governo. Intanto, le risorse militari mobilitate dagli Stati Uniti nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente rimarranno nella regione in attesa della risposta dello Stato ebraico. Lo ha dichiarato il portavoce del dipartimento della Difesa Usa, maggiore generale Pat Ryder. “Come dichiarato pubblicamente e privatamente dal segretario (alla Difesa, Lloyd Austin), non vogliamo una escalation, ma ovviamente assumeremo le misure necessarie a proteggere le nostre forze nella regione come dimostrato nel fine settimana, e le misure necessarie a difendere Israele”, ha dichiarato il portavoce.
Biden è dunque costretto a gestire una crisi che non voleva. Nella lunga notte mediorientale, Netanyahu ha difatti sentito al telefono il presidente americano, che ha condannato l’attacco iraniano e ribadito il “ferreo sostegno” di Washington a Israele. Gli Stati Uniti, insieme a Regno Unito e Giordania, hanno fatto la loro parte, ma non sosterranno alcun contrattacco israeliano nei confronti dell’Iran. Si tratta di un elemento importante, considerato che la gestione americana dall’inizio della crisi iniziata il 7 ottobre ha sempre avuto l’obiettivo chiave di evitare un ampliamento del conflitto a livello regionale. Non solo per la necessità di garantire la stabilità mediorientale, ma anche alla luce di un appuntamento sempre più vicino con le elezioni presidenziali.
Tuttavia, ancora una volta, la questione cruciale resta quella del destino nazionale di Israele, legato a doppio filo soprattutto a quello personale di Netanyahu.