K metro 0 – Madrid – I conflitti in Ucraina e in Medio Oriente hanno dato vita a un riarmo internazionale dalle conseguenze globali. Una delle più gravi, ma anche fra le più sconosciute, è il suo impatto ambientale. Gli eserciti, anche senza contare gli impatti diretti delle guerre, sono infatti responsabili del 5,5% delle
K metro 0 – Madrid – I conflitti in Ucraina e in Medio Oriente hanno dato vita a un riarmo internazionale dalle conseguenze globali. Una delle più gravi, ma anche fra le più sconosciute, è il suo impatto ambientale. Gli eserciti, anche senza contare gli impatti diretti delle guerre, sono infatti responsabili del 5,5% delle emissioni globali, secondo un rapporto dello scorso anno. Il che equivale alle emissioni di tutta l’industria mondiale e più del doppio di quelle dell’aviazione commerciale. In altre parole, se gli eserciti “fossero un singolo Paese, sarebbero il quarto più grande emettitore al mondo, davanti alla Russia”, ha dichiarato a RTVE.es Stuart Parkinson, direttore dell’organizzazione scientifica Scientists for Global Responsibility e co-autore del rapporto.
Indagare su quanto inquinano gli eserciti è però un’impresa ardua e solo recenti studi indipendenti hanno iniziato a fare luce su questo tema. Questo “enorme impatto”, come sottolinea l’esperto, non si riflette difatti in nessun registro ufficiale, a differenza delle emissioni di altri settori, come l’energia o i trasporti. Ad esempio, si scopre che l’istituzione pubblica più inquinante del mondo è il Pentagono, con l’emissione di 1,2 miliardi di tonnellate di CO₂ dall’inizio della Guerra al Terrore nel 2001, dopo l’11 settembre, fino al 2018, pari a 257 milioni di automobili. Insomma, il doppio del numero di veicoli attualmente in circolazione negli Stati Uniti, secondo un rapporto del 2019 della Brown University.
“Le emissioni militari di CO₂ sono state esplicitamente escluse dal Protocollo di Kyoto nel 1997 su richiesta degli Stati Uniti”, la prima volta che la questione è stata sul tavolo, afferma Chloé Meulewaeter, ricercatrice del Centre Delàs for Peace Studies. Nell’Accordo di Parigi del 2015, i Paesi sono stati invitati a comunicare le loro emissioni, anche se in modo facoltativo, e solo pochi Stati lo fanno, anche se spesso parzialmente e in altre categorie. Non compare nemmeno ciò che viene emesso nelle acque internazionali o nello spazio aereo, una parte fondamentale dell’impronta militare, osserva sempre Parkinson.
Non è nemmeno una coincidenza che gli Stati Uniti abbiano guidato la causa del mancato conteggio di queste emissioni, dal momento che il loro esercito è il più grande al mondo e il più inquinante. Spende di più per le sue truppe – più di Russia e Cina messe insieme – e le sue emissioni militari da sole superano quelle di paesi ricchi e di medie dimensioni come Svezia e Danimarca.
Non è da meno nemmeno il Vecchio continente. Nonostante non siano direttamente coinvolti in alcun conflitto, anche i militari europei hanno un’impronta ambientale significativa. Le emissioni annuali delle forze armate dell’Ue sono difatti equivalenti a quelle di 14 milioni di automobili, secondo uno studio dell’Osservatorio Conflitti e Ambiente e di Scientists for Global Responsibility per il gruppo The Left del Parlamento europeo, basato sui dati del 2019.
In gioco poi c’è anche l’inquinamento delle acque e distruzione degli habitat. I conflitti o i test militari “rilasciano tossine che rimangono per anni, sia sui terreni agricoli, sia nell’acqua o nell’atmosfera”, aggiunge Meulewaeter, citando in particolare i test nucleari, con conseguenze che durano per secoli. Per non parlare “dell’impatto sugli ecosistemi degli incendi causati dai conflitti, dal movimento dei rifugiati o dalla ricostruzione postbellica”, afferma invece Parkinson.
L’Ucraina è un esempio significativo. Gli incendi causati dalle bombe hanno bruciato migliaia di ettari, spesso in aree protette, e il bombardamento di fabbriche e impianti chimici ha rilasciato sostanze pericolose sul territorio, contaminando fiumi e falde acquifere e costringendo allo sfollamento delle popolazioni locali.
Infine, il riarmo della Nato potrebbe far aumentare le emissioni in questo decennio. Con lo scoppio di questo conflitto, i Paesi occidentali hanno raddoppiato gli investimenti militari, anche quelli più riluttanti, come la Germania. La Spagna, ad esempio, si è impegnata durante l’ultimo vertice Nato di Madrid a destinare il 2% del Pil alla difesa entro la fine del decennio, la storica richiesta degli Stati Uniti ai suoi partner, che di fatto raddoppierà l’attuale budget dell’1,09%. La Spagna è penultima nella lista in termini di spesa militare, ma solo sette Paesi europei spendono più del 2%.
Questo forte aumento della spesa per la difesa sta già portando a un aumento del suo impatto sul cambiamento climatico. Un recente rapporto ha stimato che negli ultimi due anni – praticamente dall’inizio della guerra in Ucraina – le emissioni militari dei Paesi della Nato sono aumentate del 15%, e non c’è alcun segno di rallentamento di questo ritmo con la minaccia di un’escalation del conflitto in Medio Oriente – come si è visto con la recente operazione lanciata dagli Stati Uniti e da altri per proteggere le navi nel Mar Rosso. Se tutti i membri dell’Alleanza Atlantica dovessero pertanto raggiungere il 2% di spesa militare entro il 2028, in quegli anni verrebbero emessi complessivamente 2 miliardi di tonnellate di CO₂, l’equivalente di un Paese come la Russia, ha rilevato lo studio.