K metro 0 – Sarajevo – Dai campanili ai minareti. Il rintocco delle campane si confonde col canto del muezzin che richiama i fedeli alla preghiera da Karađoz Bey: la splendida moschea di Mostar costruita da Sinan, il più grande architetto ottomano, contemporaneo di Michelangelo e Palladio. Ottomano è anche Stari Most, il “Vecchio Ponte”
K metro 0 – Sarajevo – Dai campanili ai minareti. Il rintocco delle campane si confonde col canto del muezzin che richiama i fedeli alla preghiera da Karađoz Bey: la splendida moschea di Mostar costruita da Sinan, il più grande architetto ottomano, contemporaneo di Michelangelo e Palladio.
Ottomano è anche Stari Most, il “Vecchio Ponte” famoso a dorso d’asino a strapiombo sul Narenta, che divide le due parti della città. Distrutto nel novembre del 1993, durante la guerra in Bosnia, e ricostruito nel 2004, unisce opposte sponde. Collega i quartieri croati con un quartiere musulmano. Ed è diventato un simbolo di rinascita, di riconciliazione dopo la guerra civile che distrusse il paese.
Ma oggi sulla pace della preghiera e la ritrovata armonia delle comunità, incombe il timore di un nuovo periodo di instabilità. I residenti di Mostar stanno fuggendo in massa, mentre i croati di Bosnia lanciano nuovi appelli a riforme elettorali radicali insieme a minacce di un potenziale boicottaggio delle prossime elezioni.
I croati cattolici bosniaci lamentano quelli che considerano difetti del sistema elettorale, che avrebbero minato il loro diritto di scegliere il proprio leader. Il macabro carnevale degli etnicismi, che scatenò la brutale guerra della Bosnia, conclusa con gli accordi di pace nel 1995, ha lasciato il paese diviso in due: metà governata dall’etnia serba, l’altra da una federazione musulmana-croata.
Oggi, a distanza di decenni, le minacce secessioniste del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, alimentano i timori che la Bosnia sia di nuovo sull’orlo del conflitto. “O risolviamo il problema separandoci pacificamente, o rendiamo la casa – lo Stato – confortevole per tutti”, ha detto Petar Vidic, un ex soldato croato di 48 anni.
La presidenza tripartita del piccolo Stato balcanico ruota tra un membro di ciascuna comunità: musulmani, serbi e croati. Ma la popolazione musulmana della federazione, bosniaca per antonomasia, possiamo ben dire, costituisce circa il 70% dei suoi 2,2 milioni di abitanti. Ne deriva un’ampia superiorità numerica alle urne e un controllo di fatto su chi può essere eletto alla guida dei croati a livello presidenziale. “Ci sono due membri musulmani e un membro serbo nella presidenza”, si usa dire nei circoli politici croato bosniaci.
Dopo anni di malcontento, molti suggeriscono il boicottaggio delle imminenti elezioni generali di ottobre. Ma a febbraio, dopo una conferenza tenutasi a Mostar, per chiedere riforme urgenti, si sono fermati prima di annunciare un boicottaggio totale.
Non ci sono le condizioni per organizzare le consultazioni fino a quando la legge elettorale non sarà cambiata “per garantire che tutti e tre i gruppi etnici siano legittimamente rappresentati”, ha affermato Dragan Covic, il capo del più grande partito croato di Bosnia.
Più dura la posizione di un altro politico croato bosniaco, Ilija Cvitanovic. “Chi pensa di poter togliere legittimità al popolo croato dovrà rispondere di questo”, ha detto ai giornalisti.
I partiti croati vogliono un meccanismo che permetta alla comunità di nominare i propri rappresentanti alla presidenza e alla camera alta: una riforma decisamente contrastata dal partito bosniaco al potere nella federazione.
Anche l’attuale presidente croato Zeljko Komsic, sostenuto dagli elettori bosniaci, ha criticato l’idea, definendola “una legge elettorale basata sull’apartheid“.
Per molti croati bosniaci, tuttavia, sono necessarie riforme per scongiurare ulteriori divisioni o possibili secessioni in un paese già profondamente frazionato.
Chi non è d’accordo pensa invece che le riforme servirebbero solo gli interessi dell’élite politica di un paese inefficiente che ha continuato a ristagnare anche dopo la fine della guerra.
Anche in pace, dicono, Mostar è stata a lungo governata da intransigenti di entrambe le parti. “Non cambierà nulla per i cittadini di Bosnia-Erzegovina con le possibili riforme delle regole elettorali”, sostiene la politologa Ivana Maric. “E’ solo un modo per distogliere l’attenzione delle persone e impedire loro di pensare a cose concrete”.
“L’economia è un disastro. Chi ci governa brandisce la minaccia della guerra e la gente fugge”, è la convinzione sempre più diffusa tra la gente comune.
Nel frattempo le divisioni tra serbi, croati e musulmani, congelate dalla pace di Dayton (del 1995) permangono. Gli elettori continuano a votare solo per partiti della propria etnia e sulla poltrona serba alla presidenza tripartita resta l’ultranazionalista filorusso Dodik, leader serbo-bosniaco con velleità secessionistiche.