K metro 0 – Napoli – In concorso nella sezione Human Rights Doc del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, il film Room Without A View, diretto da Roser Corella, è uno sguardo lucido sulle condizioni di sfruttamento vissute dai lavoratori domestici – migranti assunti con il sistema Kafala in Libano: una forma
K metro 0 – Napoli – In concorso nella sezione Human Rights Doc del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, il film Room Without A View, diretto da Roser Corella, è uno sguardo lucido sulle condizioni di sfruttamento vissute dai lavoratori domestici – migranti assunti con il sistema Kafala in Libano: una forma “moderna” di schiavitù.
Il Sistema Kafala
Il sistema Kafala regola il diritto al lavoro dei lavoratori immigrati in Libano. Le persone che svolgono lavori domestici nelle abitazioni libanesi provengono da paesi africani e asiatici tra i quali l’Etiopia, il Bangladesh, lo Sri Lanka, le Filippine e il Kenya.
Il lavoratore/lavoratrice viene reclutato da sponsor locali che li indirizzano a firmare contratti di lavoro apparentemente normali. Al loro arrivo in terra libanese, le immigrate sono letteralmente “escluse dalla legislazione in materia di lavoro e sono invece soggette al sistema “kafala”, che vincola la loro residenza legale alla relazione contrattuale col datore di lavoro. Ciò significa che un lavoratore o una lavoratrice migrante non può cambiare attività senza il permesso del datore di lavoro. Questa norma consente a persone prive di scrupoli di costringere i lavoratori ad accettare condizioni equivalenti a sfruttamento” (fonte Amnesty International” n.d.r.). Se un dipendente rifiuta tali condizioni e decide di abbandonare l’abitazione del datore di lavoro senza il consenso di quest’ultimo, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione.
Il docufilm, gli edifici e gli immigrati.
Simbolo del paese, tappezzata di gigantografie di uomini di governo e grandi imprenditori-edifici ancora squarciati dalle bombe e ruspe al lavoro-la città nel sud del Libano viene raccontata, attraverso la cementificazione.
Grandi “alveari”, dove le immagini di case senza storia e senza stile (si pensi al fulgore e la bellezza architettonica degli antichi quartieri di Beirut) si susseguono in ripetute panoramiche. Sono le abitazioni popolari – ma provviste naturalmente di antenne satellitari -dove la macchina da presa non si sofferma sul lavoro dei domestici, perché un cittadino libanese medio, non può permettersi di pagare un collaboratore domestico. Quello dove nascono le forme di sfruttamento del “legale” sistema Kafala, appartiene agli “interni” delle abitazioni. Sequenze riprese da lontano, come se l’occhio del regista volesse cogliere quel “delitto” così com’è.
Le riprese dal basso, invece, sono quelle per i grandi nuovissimi edifici (anche grattacieli, con tante vetrate e giardini pensili) altrettanto anonimi, come quelli proletari, ma futuristici e destinati alle nuove élite libanesi. Stacchi di immagini che inquadrano, ironicamente, questi quartieri fantasma e i loro faraonici modellini. Chi si occupa della ricostruzione che nasce sulle macerie di esplosioni e distruzioni? Da chi è guidata tale speculazione edilizia, nel Libano?
La donna libanese
Una sequenza del film-ricostruzione filmica e non testimonianza/intervista- rivela in un dialogo salottiero tra donne libanesi, una versione più “illuminata “rispetto a quella del famigerato sistema Kafala : ciascuna parla della propria cameriera e delle sue capacità. Non una persona, ma qualcosa che si può” deteriorare”, della quale prendersi cura, responsabilmente. Potrebbe in quel caso, paternalisticamente parlando, essere considerata, tutto sommato, come una di famiglia. Una domestica/robotica, che ha bisogno di vestiti, di un telefono cellulare, per parlare, eventualmente con un parente nel proprio paese.
Non una libera cittadina. Il docufilm utilizza spesso la tecnica della voce fuori campo: una di queste ribadisce che le donne libanesi, oggi, devono assolvere i ruoli multipli di madre, casalinga e manager e che dunque delegano alla domestica molto del tempo che non riescono a dedicare alla famiglia.
Sono impegnate a ricevere parenti, amici di famiglia o vicini. L’apparenza e la convenzione sono aspetti fondamentali per essere consacrati all’interno di una “novelle société” capitalistica.
Le testimonianze
La voce fuori campo di una donna ghanese descrive le sue condizioni disumane, le sue giornate che si ripetono tutte uguali, con ore di lavoro massacranti. Devono occuparsi anche dei neonati che piangono tutta la notte e spesso si ammalano, senza alcuna assistenza sanitaria.
Le immagini si soffermano sulle abitazioni che hanno, solo, due balconi. È quello il luogo di lavoro delle immigrate, le abitazioni che hanno i balconi con fiori. Anche se in apparenza, la donna-padrona di casa-sembra innocua consumatrice di programmi televisivi, come qualsiasi altra donna “borgese”, il dettaglio della domestica che lava il balcone, risulterà, a causa delle testimonianze, estremamente inquietante.
Alcune immigrate, per fuggire alla schiavitù ormai acclarata, si sono gettate proprio da uno di quei balconi, spinte dal desiderio di suicidarsi. Una piaga vera e propria che si diffonde tra le lavoratrici. Si sento perdute, non sanno a chi chiedere aiuto, la legge non le tutela. Non hanno nessun diritto, e il “capofamiglia” (come viene ben messo in scena in una improvvisazione teatrale tra studenti in un Ateneo) al momento del loro arrivo, prima sottrae loro il passaporto, poi, decide se abusare o no, della sua “dipendente”.
“Tutti sanno in Libano, ma nessuno fa nulla” confessa un intervistato. Alcune donne immigrate scampano alla morte, altre no. Una di loro, che lavora per mantenersi agli studi in Nigeria, si chiede:” Perché devo venire a morire in Libano?”.
La presa di coscienza
Molto interessante il racconto di alcune delle migranti, quando in una trasmissione radiofonica, denunciano la loro condizione e si rivolgono alle altre lavoratrici, per formare un movimento, per così dire, di rivendicazione sindacale e di lotta alla schiavitù. Alla fine si ritrovano in strada a manifestare, tutte assieme. Un docufilm molto ben raccontato, un “patiche” di lingue ed idiomi, di culture, di verità. Affresco inedito, per chi scrive, di una società libanese, in continua mutazione.