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L’Uomo che vendette la sua pelle … Opera d’arte fatta uomo

L’Uomo che vendette la sua pelle … Opera d’arte fatta uomo

K metro 0 – Roma – Il film L’uomo che vendette la sua pelle, pluripremiato alla 77 mostra del cinema di Venezia (premio Orizzonti per la Miglior interpretazione Maschile, premio inclusione Edipo Re) della regista tunisina Kauther Ben Hania (distribuito in Italia da Wanted cinema) prima candidatura all’Oscar per miglior film internazionale, s’ispira all’evento dell’artista

K metro 0 – Roma – Il film L’uomo che vendette la sua pelle, pluripremiato alla 77 mostra del cinema di Venezia (premio Orizzonti per la Miglior interpretazione Maschile, premio inclusione Edipo Re) della regista tunisina Kauther Ben Hania (distribuito in Italia da Wanted cinema) prima candidatura all’Oscar per miglior film internazionale, s’ispira all’evento dell’artista belga Wim Delvoye.

Il protagonista del film, Sam Ali (interpretato mirabilmente da Yahya Mahayni) è un giovane siriano che fugge dalla guerra per riparare in Libano. Lì trova lavoro presso un’industria che alleva animali (inquietante la sequenza dei pulcini, marchiati vivi in massa…).

Dopo aver saputo che Abeer (intensa e commovente Dea Liane) è fuggita in Belgio, vuole raggiungerla.

La strategia del rifugiato extra-mondano.

Alì, ormai rifugiato politico, non vuol seguire la sorte dei suoi compatrioti, pensa di “farla franca”, di poter scavalcare tutte le norme “comunitarie”, di usare un parossistico stratagemma, extramondano. Il suo desiderio di ricongiungersi all’amata, per vivere in pace la loro vita insieme, lo spinge ad accettare un mefistofelico accordo con Jeffrey Godefroi (un eccellente Koen De Bouw ).Il poliedrico artista Godefroi, manager di una non ben identificata novelle art, propone al nostro esule, una strategia di fuga, un modo per affrancarsi e di ottenere la libertà…

Di che libertà si parla?

Quella di Alì non è una storia realmente accaduta, non si tratta cioè del biopic di un personaggio sconosciuto che diviene celebre. La sceneggiatura de il film L’uomo che vendette la sua pelle procede sul doppio filo dell’invenzione e della citazione. L’eroe rifugiato utilizza l’amore come vettore per raggiungere la sua ipotetica libertà personale che non coincide affatto con quella del suo popolo. Sarà lui stesso a dichiararlo, sbattendo la porta in faccia ai delegati di un’associazione siriana, che lo vorrebbe come leader del movimento dei diritti umani. “Del mio corpo faccio quello che mi pare” dichiara in sintesi. Poi se ne pentirà…

Il film tiene, volutamente sullo sfondo, la vicenda siriana (una vicenda storica, politica sociale, umanitaria, complessa) liquidando, in poche sequenze, narrazioni più orribili che avrebbero poi necessitato di tutt’altro spazio. L’idea del film è comunque quella di parafrasare l’aspetto mercificatorio dell’arte, per offrire un momento di riflessione sul tragico fenomeno del commercio di vite umane. Ecco che Godefroi assume sinistre valenze, a metà strada tra Mefistofele e Pigmalione. E’ l’uomo del destino, il grimaldello che Alì dovrà usare per ottenere il suo ricongiungimento con la donna, il femminile perduto. In una sequenza che riprende l’azione a sua volta ripresa da una video-camera (già molte volte utilizzata in cinema n.d.r.) l’improbabile vate Godefroi, dichiara al suo pubblico che l’arte non è morta. Così facendo, il film tira in ballo, più o meno consciamente, la questione dell’opera d’arte.

Di che si tratta ?

I critici novecenteschi, i poeti, gli scrittori glia artisti dell’avanguardia, dichiaravano che l’opera d’arte aveva perduto la sua “aura” originale ed immortale, divenendo riproducibile. Dopo più di un secolo, la questione appare non risolta. E’ evidente come il film, fin dal titolo, insinui in questa zona franca, un’agghiacciante tesi per la quale ogni cosa esistente può essere mercificata- con la di essere opera artistica- al di là di ogni legge universale.

Uso ed abuso.

Il punto non è l’uso del corpo come oggetto d’arte ( si pensi alle celebri installazioni di artiste come Abramovic) ma quanto questo sia volontario o no. L’uomo Alì si presta ad un esperimento vero e proprio, cedendo al ricatto-riscatto, non in nome di una ricerca artistica, ma per futili motivi, per il vanto di un’ elites di miliardari, che lo hanno acquistato e che hanno su di lui diritto di vita e di morte(grottesco il monologo dell’assicuratore che elenca i casi favorevoli per l’incasso della quota assicurativi, cancro sì, esplosione, no).

“ Il corpo umano si può spostare liberamente solo come merce“ dice Godefroi. Possiamo definitivamente declassare Mefistofele, perché se in passato s’è perduta l’aura dell’arte, oggi è l’anima umana a rischiare di perdersi. E vi è sempre un’elites coinvolta.

Il tatuaggio Schengen .

Nel film L’uomo che vendette la sua pelle, Alì ha un suo marchio, quello che ci fa riflettere molto, di questi tempi. Un marchio, appunto, da chiunque, riproducibile: l’arte non può liberare l’uomo, poiché uomo più non è. La regista tunisina Kauther Ben Hania ci propone un tema assai interessante, ma complesso. Talvolta la sceneggiatura ha delle flessioni, soprattutto verso il finale, che, rischiava d’essere scontato, data la mole di simbologie evocate. Del resto il cinema di denuncia non è fulgido, semmai in decadenza. L’arte sta perdendo il suo passo con la politica, adesso che la stessa politica sta, pericolosamente, lasciando spazio ad altro. Alla fine in questo film, la regista tunisina è lodevole nella sua ricerca stilistica.

Interpretazioni attoriali.

Grandi prova d’attore per gli interpreti del cast: in particolare quella dell’esordiente Yahya Mahayni (senza artificio, attonito, estraniato, trasfigurato rabbioso) e di Jeffrey Godefroi , carismatico e talentuoso attore belga. La partecipazione di Monica Bellucci (algida Soraya), delinea la presenza di un’attrice al naturale, senza divismi ed echi “provincialistici”. Congratulazioni.

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