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Scoxit, tra dubbi e certezze

Scoxit, tra dubbi e certezze

K metro 0 – Edimburgo – Il 18 settembre del 2014, quando ancora non esisteva il concetto di Brexit, il referendum per l’indipendenza della Scozia rivelò che il 55% degli scozzesi desiderava allora rimanere nell’area politica ed economica del Regno Unito. Ma 4 anni, nella geopolitica, sono molti: in 4 anni possono cambiare governi, ministri

K metro 0 – Edimburgo – Il 18 settembre del 2014, quando ancora non esisteva il concetto di Brexit, il referendum per l’indipendenza della Scozia rivelò che il 55% degli scozzesi desiderava allora rimanere nell’area politica ed economica del Regno Unito.

Ma 4 anni, nella geopolitica, sono molti: in 4 anni possono cambiare governi, ministri e anche la mentalità di un popolo. La decisione dell’Inghilterra di uscire dall’Europa, la cui effettiva attuazione si sta rivelando oggi molto più complessa di quanto Theresa May avesse previsto, ha cambiato molte cose nel panorama politico europeo. Già il 28 marzo dello scorso anno il Parlamento scozzese, con 69 voti a favore e 59 contrari, decise di convocare un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia, che potrebbe avvenire nei prossimi mesi e avere un risultato politico totalmente differente da quello del 2014, a causa delle incertezze che portebbero accompagnare l’uscita della Gran Bretagna (ma è più esatto parlare di Regno Unito, dato che, come vedremo, il discorso riguarda anche l’Irlanda) dall’Unione Europea. La Scozia, da sempre, è notoriamente filoeuropeista, ma non ha il potere di impedire l’uscita del Regno Unito dall’UE. Può solo votare contro la Brexit, più come provocazione politica che altro, ma non può impedire a Westminster, che rimane il Parlamento sovrano, di approvarla. L’unica cosa che la Scozia può fare in questo casi è diventare indipendente, traguardo che, in verità, insegue da trecento anni. Oggi la conosciamo come Scoxit (Scotland Exit), la volontà di voler uscire dall’area della Gran Bretagna, pur rimanendo in Europa.

Il voto di marzo 2017 del Parlamento scozzese, che secondo il primo ministro Nicola Sturgeon “…chiarisce come la gente veda il proprio futuro come parte dell’Unione Europea”, è anche una sorta di provocazione a Theresa May, che poco prima aveva dichiarato l’impossibilità di avere un nuovo referendum per l’indipendenza scozzese.

Ma lo scenario politico ed economico si è rivelato complesso già poco tempo dopo il famoso referendum sulla Brexit del 26 giugno 2016: la Scozia e l’Irlanda votarono per rimanere nell’Europa, e persino la maggior parte dei cittadini di Londra, filo-europeisti anche grazie a una grande presenza di immigrati europei nella capitale inglese, si dichiarò favorevole a rimanere nell’UE. Sembra quindi che la volontà di dissociarsi dall’Unione Europea, nonostante i proclami della May, sia limitata alle sole zone della Gran Bretagna intorno a Londra. Oggi, c’è persino chi cercherebbe di far rimanere la sola Londra nella comunità europea, mentre il resto del Regno Unito potrebbe uscirne. Un’ipotesi politicamente troppo complessa per essere realizzabile, almeno sul breve periodo.

Ma torniamo alla Scozia: Nicola Sturgeon, pragmatica come sempre, vorrebbe indire il referendum nel 2019, ma comunque prima del 29 marzo (data prevista per l’uscita del Regno Unito dall’UE) sia per studiare bene le prossime trattative tra Regno Unito e Bruxelles, sia per evitare che la Scozia si trovi, per un periodo indefinibile, in una sorta di “zona grigia” politica, economica e sociale, fuori sia dal Regno unito che dall’Unione europea. Ci sono poi altri elementi che consigliano una certa cautela al Parlamento scozzese: dopo aver perso il referendum sull’indipendenza della Scozia del 2014, la Sturgeon ha ora bisogno di una relativa certezza di poter vincere il prossimo; si dovrà poi decidere quale valuta si userebbe in una Scozia indipendente, se la sterlina scozzese (che comunque non è mai stato possibile utilizzare nel Regno unito) oppure l’euro. La Scozia dovrà inoltre irrobustire la sua l’economia, indebolita dal crollo del prezzo del petrolio (ma, da quanto abbiamo visto di persona, in decisiva ripresa grazie al turismo) e ancora in buona parte dipendente dal Regno unito: il 67% delle esportazioni in Inghilterra proviene proprio dalla Scozia, e il 10% del deficit annuo del paese viene puntualmente spianato grazie a finanziamenti inglesi.

Questo filo-europeismo scozzese ha solide radici economiche, politiche e persino sentimentali: nel corso dei secoli, durante i precedenti conflitti contro l’Inghilterra, la Scozia ha sempre trovato sostegno nei paesi europei, Francia in particolare. Il sentimento è poi rafforzato da una lunga e collaudata cooperazione economica: 330mila posti di lavoro in Scozia riguardano oggi cittadini europei; il 46% delle esportazioni scozzesi va nei paesi dell’UE; 200 mila studenti europei, inoltre, frequentano università scozzesi. Un numero in aumento, favorito da tasse universitarie che in Scozia sono un terzo di quelle applicate nel Regno unito. La libera circolazione di cittadini europei, inoltre, è da sempre incentivata e preziosa per la Scozia, che oggi si trova anzi nella paradossale situazione di avere troppo lavoro da offrire, e sta cercando di attirare lavoratori da altri paesi dell’UE.

La Scozia, in questo clima di incertezza causato dalla Brexit, rappresenta il giusto equilibrio: fedele alle sue tradizioni ma, nello stesso tempo, fortemente europea: probabilmente è il paese più filoeuropeo del nord dell’Europa. Una caratteristica che abbiamo spesso notato nel corso del nostro reportage in Scozia. In tutta la Scozia gli unici ad essere favorevoli all’uscita dall’Europa sembrano essere solo gli abitanti più conservatori delle zone più rurali e lontane delle Highlands: contadini, allevatori, pescatori, che temono una futura mancanza di lavoro e la fuga dei giovani verso Edimburgo o addirittura verso altri paesi dell’UE.

In verità, rimanere nell’UE sarebbe un vantaggio anche in queste zone rurali della Scozia, in termini di finanziamenti dell’Unione Europea, agevolazioni fiscali e incentivi all’immigrazione di lavoratori europei. La Scozia, quindi, chiede l’indipendenza dall’Inghilterra e la rimanenza nell’Unione europea, traguardo inseguito anche da Londra, mentre l’Irlanda del sud e del nord vorrebbero l’unificazione (ma, nonostante qualcuno già stia ipotizzando una “Irexit”, Theresa May ha dichiarato di non voler proibire la libera circolazione nel territorio irlandese).

Ci sarebbero poi da sciogliere anche i nodi riguardanti la Gibilterra e l’isola di Man, piccolo territorio a governo autonomo ma dipendente dalla Corona Britannica nel mar d’Irlanda, e persino zone molto lontane come le isole Chagos, appartenenti ai territori britannici nell’Oceano Indiano. Tutti frammenti dell’antico Impero britannico, che a loro volta stanno iniziando ad avere dei propri movimenti per l’indipendenza.

A meno che il Parlamento inglese non si decida quindi per una soft-brexit (in un summit previsto per il 18 ottobre prossimo, l’Unione Europea e la Gran Bretagna dovranno decidere le basi delle loro future relazioni), la situazione geopolitica ed economica dei prossimi mesi potrebbe rivelarsi molto nebulosa e incerta per l’Inghilterra, che potrebbe perdere molti dei vantaggi derivanti dall’essere parte dell’Europa. In questo scenario caotico, c’è solo una certezza: la Scozia è e vuole rimanere una nazione molto più europea di quanto potrebbe mai esserlo la Gran Bretagna.

 

Di Emiliano Federico Caruso

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