K metro 0 – Venezia – Ottimo cinema al festival di Venezia. Pubblico soddisfatto, giornalisti e festival ieri pure. Chi aveva espresso quell’entusiasmo un poco fuori luogo durante la lunga vigilia della Mostra del cinema, a partire dalla conferenza stampa di fine luglio, basandosi semplicemente sui titoli e sui molti divi annunciati, ha comunque avuto
K metro 0 – Venezia – Ottimo cinema al festival di Venezia. Pubblico soddisfatto, giornalisti e festival ieri pure. Chi aveva espresso quell’entusiasmo un poco fuori luogo durante la lunga vigilia della Mostra del cinema, a partire dalla conferenza stampa di fine luglio, basandosi semplicemente sui titoli e sui molti divi annunciati, ha comunque avuto ragione. A metà della rassegna, che si conclude l’8 settembre, dunque non risultano delusi, anche tra i cinefili più esigenti, dal bel programma messo insieme dal direttore Alberto Barbera. E se comunque qualche limitata riserva non manca, è qualcosa che fa parte della norma e delle regole del gioco.
A parte il resoconto delle presenze di pubblico e dei biglietti venduti che arriverà alla fine, a vista è stato possibile percepire un forte interesse per i film con le lunghe file e le attese davanti ai luoghi deputati del festival, e le sale affollate spesso fino al tutto esaurito. Anche la calca di fan e curiosi davanti al Palazzo del cinema in attesa della passerella di attori e registi sul tappeto rosso, può dire qualcosa del diffuso e giustificato consenso che si registra attorno a questa Venezia numero 75.
Il direttore sembra aver centrato l’obiettivo, mettendo l’uno accanto all’altro generi diversi del cinema, alcuni, con il western, l’horror, il poliziesco e qualche altro, fino a qualche tempo fa guardati con sospetto dai festival e in un certo senso senza diritto di cittadinanza nei gradi manifestazioni cinematografiche.
A partire dal film di apertura, First man, di Damien Chazelle, l’autore di La la land che due anni fa aveva vinto i Leone d’oro e poi l’Oscar. È piaciuto il tema portante del film: non tanto “l’impresa”, come ci si poteva attendere da un film americano di stampo prevalentemente auto celebrativo, ma l‘uomo, con la sua determinazione, i suoi valori, e le sue fragilità, dunque la figura umana che fece quell’impresa, il primo uomo che 49 anni fa mise piede sulla Luna.
Scegliendo fior da fiore tra i tanti film già passati, tra concorso, fuori competizione e le altre sezioni, ottimo e perfino più importante del film di apertura anche The favourite, del greco qui sotto bandiera angloamericana Yorgos Lanthimos, che qualcuno mette già tra i film candidati al Leone d’oro. E’ ambientato nell’Inghilterra di metà ‘700, sotto il regno di quella singolare figura della regina Anna, priva di qualunque capacità richiesta a chi guida una nazione e anche per questo vittima dei giochi di corte che si svolgevano attorno a lei. Eppure, nonostante questa distanza temporale, è un film di straordinaria attualità, del resto nello spirito con cui lo ha concepito il regista, autore di peso nel panorama del cinema internazionale. Un’opera sul Potere, quel potere capace di corrodere e di corrompere chi lo esercita. E in questo caso ad esercitarlo sono due donne che si contendono con una durezza inaudita e senza esclusione di colpi, il ruolo di influente “favorita” della regina, oggi diremmo “cerchio magico”, una figura capace di condizionare e orientare l’intera politica di un Paese. E che siano due donne al centro della vicenda, diventa un motivo in più di interesse: sotto certi aspetti forse un po’ paradossali, un film “femminista” proprio perché attribuisce anche alle donne una ferrea volontà di raggiungere e di mantenere il potere machiavellicamente con ogni mezzo. Ma per entrare nello spirito del paradosso, occorre mettere da parte i pregiudizi di un certo femminismo militante sostanzialmente fondamentalista.
Pregevole “Roma”, del messicano Alfonso Cuaron, lo stimato autore di Gravity, successo internazionale di un paio di anni fa. Un film autobiografico molto personale con cui il regista rievoca gli anni della sua infanzia nel quartiere della media borghesia di Città del Messico, chiamato appunto Roma. E accanto alle amare vicende familiari, il padre molto assente che presto lascerà la famiglia, la madre che si dedica ai tre figli, la coppia che non funziona, la governante amorevole fino alla devozione, un quadro familiare difficile raccontato talvolta con leggera autoironia, c’è la tormentata storia recente del suo Messico, tutto in uno stile che talvolta può ricordare la mano di Fellini.
Di grande interesse “Doubles vies”, del francese Olivier Assayas, che si interroga sui cambiamenti che stiamo vivendo e in parte ancora subendo con le nuove tecnologie, nel lavoro, nei rapporti umani, nella diffusione e fruizione della cultura, dei libri, dei giornali. In campo ci sono il capo di una casa editrice, uno scrittore e loro le famiglie con diversi intrecci di relazioni amorose, amici intellettuali, scrittori, giornalisti. Condotto con molta agilità delle situazioni, nella recitazione, nei dialoghi, il film pone interrogativi molto stimolanti che rimarranno irrisolti forse ancora a lungo: che fine farà l’editoria, avremo ancora i libri o spariranno, la gente leggerà ancora, di meno o di più, come leggerà, dove finiranno i giornali.
Altri pretendenti al Leone d’oro sono i due western in concorso: The ballad of Buster Struggs, dei fratelli Coen, e The Sisters brothers, del francese Jacques Audiard, qui sotto bandiera americana. Diversi l’uno dall’altro, il primo diviso in 6 episodi con altrettanti racconti distinti, molto poetico, spesso carico di umorismo e benevola, allegra ironia, con tante citazioni di altri film western e soprattutto un omaggio a Sergio Leone, al cui stile i fratelli registi dicono di essersi ispirati, amandolo profondamente. Più aderente ai canoni classici del genere che comunque vengono genialmente reinventati l’altro film, a sua volta ricchissimo di richiami, ironia, leggerezza pur nelle vicende talvolta drammatiche che racconta. Un Leone d’oro lo meritano entrambi, e a Venezia sarebbe la prima volta di un western. Peraltro, anche un bel segnale di “sdoganamento” di questo genere finora ritenuto di secondo piano rispetto al cinema che affronta le tematiche che più incidono, politica, problemi sociali, introspezione psicologica, malesseri individuali e collettivi.
Buona l’accoglienza per i film italiani. Suspiria, di Luca Guadagnino, che si è cimentato nel rifacimento del classico horror di Dario Argento, ha ottime qualità visuali e di recitazione, ma è il tipico film che nei festival dividono: da una parte, estimatori senza riserve rimasti ammirati dal difficile lavoro del regista; dall’altra, i detrattori che lo bocciano con altrettanta convinzione. Forse la valutazione più convincente sta nel mezzo. Il film non è del tutto riuscito, anche se c’è un talento visivo da riconoscere. Non ultimo, il fatto che questo nuovo Suspiria risente del peso dell’originale, ormai considerato nel suo genere un capolavoro. Tanti applausi pressoché unanimi per il secondo film italiano in concorso, Che fare quando il mondo è in fiamme?, di Roberto Minervini. Un consenso empatico, partecipe, dovuto anche al tema del film, un documentario sul razzismo in America, oggi. Se il film ha un limite, e quello di non essere una grande inchiesta di quelle che lasciano il segno sul razzismo che talvolta è emerso in occasione di manifestazioni e di operazioni di polizia, e soprattutto su quel razzismo sottotraccia, che non si manifesta platealmente e che pure si dice che serpeggi nella società americana.
Consensi anche per la miniserie televisiva, prodotta anche dalla Rai, L’Amica geniale, tratta dagli omonimi lavori letterari della “misteriosa” scrittrice Elena Ferrante. La mostra ha proiettato i primi 2 episodi, e si tratta di televisione di altissima qualità. Ora l’attesa è per il terzo film italiano in concorso, Capri-Revolution, firmato da Mario Martone.
Alla Mostra del cinema non è mancata la polemica, ormai stucchevole, sulla presenza femminile. In effetti, in concorso c’è un solo film firmato da una donna. Ma è tutto da dimostrare che questo sia frutto di una scarsa attenzione ne confronti delle registe donne, addirittura, come qualcuno ha adombrato, una discriminazione. Il direttore Barbera si è dovuto difendere, su questo fronte, da attacchi ingenerosi: il giorno in cui dovrò scegliere un film solo per fare numero di presenza femminile, cambierò mestiere, ha detto. Ma non gli sono mancate solidarietà anche femminili: chissà quanto è lontano il giorno in cui smetteremo di contare il numero di registi uomini e di registe donne presenti nel programma di un festival. In ogni caso, per chi vuole proprio continuare in questo conteggio, sono molte le donne presenti nelle diverse sezioni della Mostra; nella Giornate degli autori, sono 6 su 12. Ma non è detto che l’auspicata parità di genere sia stata raggiunta con la divisione in perfetta metà.
di Nino Battaglia