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Informazione televisiva: maschilista, leghista, classista, di Vincenzo Vita

Informazione televisiva: maschilista, leghista, classista, di Vincenzo Vita

K metro 0 – Roma – Sono state pubblicate sul sito dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni le tabelle sui tempi di parola e di notizia dei soggetti politici ed istituzionali dal 19 agosto al 4 settembre 2021. Vale a dire il primo atto della par condicio, che inizia dall’indizione dei cosiddetti comizi elettorali e

K metro 0 – Roma – Sono state pubblicate sul sito dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni le tabelle sui tempi di parola e di notizia dei soggetti politici ed istituzionali dal 19 agosto al 4 settembre 2021. Vale a dire il primo atto della par condicio, che inizia dall’indizione dei cosiddetti comizi elettorali e si conclude all’atto del deposito di simboli e candidature.

Com’è andata? Una prima considerazione sovrasta quelle successive, perché è come una metafora del sistema mediatico. Si tratta dello squilibrio di genere. Sul totale del tempo di parola nei telegiornali lo spazio assegnato alle donne è di 5 ore (11% del totale), a fronte delle 40 (89%) appannaggio dei maschi. Nelle trasmissioni extra tg siamo a 20 ore (21%) contro 76 ore (79%). Spicca negativamente la Lega di Salvini, che conquista la maglia nera per la discriminazione sessista (0% a 100%).

Naturalmente, i dati sono solo una delle componenti del discorso. La questione, infatti, va ben al di là e riguarda linguaggi, narrazioni, stili, parole. Con qualche timida eccezione, in generale il flusso comunicativo è centrato sulla visione maschile del mondo.

Numerose sono le proteste delle commissioni pari opportunità delle organizzazioni sindacali e dell’associazione GiULiA giornaliste, ma l’ordine dominante non cambia. Del resto, l’infornata recente di nomine unisex al vertice della Rai è l’ulteriore conferma di una tendenza grave e inquinante.

Le tabelle ci raccontano innanzitutto questo. Ma non solo. Risalta il privilegio accordato alla citata Lega.

Il partito diretto da Matteo Salvini ottiene il 25,38% del tempo nelle principali edizioni dei telegiornali del servizio pubblico; il 23,69% nelle omologhe di Mediaset; il 40,27% ne La7; il 47,48% in Sky (satellite); il 48,41% ne la Nove. Il medesimo Salvini è in testa nella classifica delle personalità con maggior facoltà di parola nel Tg2, nel Tgcom24, nelle trasmissioni extra-tg ne La7. Alberto Bagnai, leghista, balza al comando nel ranking extra-tg di Skytg24. Sempre Salvini arriva secondo nel Tg5.

Come si vede, le proporzioni sono asimmetriche sia rispetto alle recenti consultazioni elettorali, sia nei riguardi (pur impropriamente) delle previsioni di voto.

Tra l’altro, c’è pure un filo di bizzarria. Oltre alla sottostima permanente di Liberi e uguali, nonché alla cancellazione dei radicali impegnati in raccolte di firme referendarie, Studio Aperto riduce all’1,21% Forza Italia. Forse una tattica per ribaltare le proporzioni a ridosso della scadenza amministrativa.

Poche e afasiche le notizie sulle vertenze occupazionali in corso.

In ogni caso, l’Agcom dovrebbe pure occuparsene, questo essendo uno dei compiti fondamentali previsti dalla legge istitutiva del 1997. Altrimenti, il monitoraggio diventa uno strumento di studio o di ricerca, mentre è una premessa utile per agire al fine di imporre il rispetto delle norme.

Ancora. Siamo alla vigilia di un turno inerente al rinnovo di enti ed autonomie locali. Sarebbero protagonisti della scena i comitati regionali per le comunicazioni (CORECOM), ugualmente previsti dalla l.249. Stanno vigilando? Magari sì, e in tal caso ci scusiamo. Tuttavia, nulla si sente, al cospetto di una informazione discutibile. Va rammentato che adesso, nel periodo delle maglie strette della par condicio, tutte e tutti i soggetti hanno diritto ad eguale rappresentazione. Senza esclusioni o preferenze.

Comunque, al netto di ogni considerazione sui minutaggi attribuiti ai partiti, è drammaticamente urgente riequilibrare la parità di genere. Subito, senza se e senza ma.

PS: nella rubrica dello scorso primo settembre, si fece notare come Netflix avesse impropriamente protestato per l’articolo sulle quote obbligatorie di investimento nella produzione di film e fiction previsto dal decreto legislativo 288 (in discussione nelle competenti commissioni parlamentari), che recepisce la direttiva europea sui servizi audiovisivi. Nei giorni passati sono uscite intere paginate (a pagamento, si suppone) su diversi quotidiani per ribadire le ragioni del gruppo. Ma costano di più le inserzioni o le quote?

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Vincenzo Vita
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