K metro 0 – Strasburgo – Una sentenza molto discutibile, emanata la scorsa settimana dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, consente ai datori di lavoro di discriminare le persone che indossano abiti religiosi. Una decisione che danneggia, in particolare, le donne musulmane. Ma viola, soprattutto, la tutela della libertà religiosa, uno dei cardini della Dichiarazione
K metro 0 – Strasburgo – Una sentenza molto discutibile, emanata la scorsa settimana dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, consente ai datori di lavoro di discriminare le persone che indossano abiti religiosi.
Una decisione che danneggia, in particolare, le donne musulmane. Ma viola, soprattutto, la tutela della libertà religiosa, uno dei cardini della Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.; tale diritto include la libertà di (…) manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”.
La Corte di giustizia dell’UE è stata chiamata a decidere su due cause intentate da donne in Germania alle quali era stato vietato di indossare il velo sul luogo di lavoro. E con una sentenza emanata il 15 luglio ha stabilito
che i datori di lavoro possono limitare le manifestazioni di convinzioni religiose, politiche o filosofiche laddove vi sia “un’autentica necessità” di “presentare un’immagine neutra nei confronti dei clienti o di prevenire controversie sociali”.
Questo stesso principio di “neutralità” è stato precedentemente invocato per giustificare analoghi divieti nel settore pubblico, spianando così la strada a una diffusa discriminazione sul lavoro anche in quello privato.
Ma, come è stato osservato, il ragionamento secondo cui l’abbigliamento religioso potrebbe danneggiare gli affari di un’azienda dà per scontato ciò che invece è a dir poco discutibile: ovvero che le obiezioni dei clienti verso i lavoratori in abbigliamento religioso possano legittimamente prevalere su diritti dei dipendenti.
La Corte sostiene che queste restrizioni non sono discriminatorie purché si applichino equamente a tutte le manifestazioni di credenze religiose. Eventuali restrizioni dovrebbero allora limitare, ad esempio, anche l’uso della kippah (il copricapo circolare indossato dagli ebrei osservanti) e del turbante sikh. In pratica, sono le donne musulmane in Europa che indossano il velo (ovvero l’Hijab, un foulard che copre i capelli o girano a volto coperto) ad essere spesso oggetto di tali restrizioni.
I divieti sull’abbigliamento e sui simboli religiosi per docenti e altri dipendenti pubblici in Germania hanno portato alcune donne musulmane a rinunciare alla carriera di insegnanti.
Il divieto di coprirsi il viso in Francia, confermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha portato a multe per quasi 600 donne musulmane in meno di tre anni. E la legge francese del 2004 che vietava il velo nelle scuole ha impedito ad alcune ragazze musulmane di terminare gli studi.
Per tutte le donne costrette a indossare il velo o a coprirsi il volto, questi divieti non affrontano le cause profonde dell’oppressione, ma rischiano in pratica di ridurre ulteriormente il loro impegno sociale, aumentando così il loro isolamento.
In altre parole, anziché aiutare a smantellare le norme patriarcali che permettono il controllo del corpo e del comportamento delle donne, questi divieti possono al contrario alimentarle.
Gli Stati europei stanno esercitando un controllo crescente sulle decisioni e sui corpi delle donne, dal divieto del velo in Danimarca e Svizzera al quasi divieto dell’aborto legale in Polonia. La decisione della Corte di giustizia dell’UE potrebbe alimentare questa preoccupante tendenza.
Le donne musulmane non dovrebbero dover scegliere tra la loro fede e il loro lavoro. Proprio indossando il velo, del resto, in molti paesi islamici, hanno potuto circolare liberamente, frequentare l’università e scegliersi un lavoro.
Così, ad esempio, in Iran, oggi il tasso di alfabetizzazione femminile, fra i 15 e i 24 anni, è quasi il cento per cento, le studentesse sono il 60% degli iscritti nelle università.
E pur soggette a numerosi vincoli e limitazioni, le donne hanno fatto grandi passi avanti nelle professioni. Un terzo dei medici del paese porta l’hijab, l’80% degli insegnanti sono donne. Molta strada resta ancora da fare sulla via dell’emancipazione femminile, ma su diritti umani non si può certo dire che l’hijab sia il principale ostacolo…