La strategia Europa 2020 è il programma dell’UE per la crescita e l’occupazione per il decennio in corso. Mette l’accento su una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva come mezzo per superare le carenze strutturali dell’economia europea, migliorarne la competitività e la produttività e favorire l’affermarsi di un’economia di mercato sociale sostenibile. K metro 0 –
La strategia Europa 2020 è il programma dell’UE per la crescita e l’occupazione per il decennio in corso. Mette l’accento su una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva come mezzo per superare le carenze strutturali dell’economia europea, migliorarne la competitività e la produttività e favorire l’affermarsi di un’economia di mercato sociale sostenibile.
K metro 0 – Roma – Secondo i dati di Eurostat, visibili sul sito ufficiale della Commissione europea, l’Italia è abbastanza indietro – almeno per certi aspetti più significativi – nel cammino per raggiungere gli obbiettivi dell’Agenda “Europa 2020”: che, adottata dalla UE nel 2010, detta i traguardi di crescita economica e occupazionale per il decennio in corso (decennio, peraltro, ormai quasi alla fine). Il tutto, dando il massimo rilievo a una crescita “intelligente, sostenibile e inclusiva” come mezzo per risolvere le storiche carenze strutturali dell’economia europea: favorendo l’affermarsi d’ un’economia di mercato sociale più produttiva, più competitiva e, soprattutto, sostenibile.
L’ Agenda 2020 pone obbiettivi ambiziosi: come portare il tasso d’ occupazione della fascia d’età dai 20 ai 64 anni, in tutta la UE, al 75% (quasi da Scandinavia dei tempi d’oro, diremmo!), e ridurre le emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990. Ci sono, poi, l’obbiettivo di aumentare del 20% l’efficienza energetica di ogni Paese della UE, e importanti traguardi in campo sociale: come, anzitutto, la crescita al 40% della percentuale di popolazione tra i 20 e i 34 anni in possesso di un diploma d’istruzione superiore, e la riduzione di almeno 20 milioni del numero di cittadini comunitari a rischio di povertà o di esclusione sociale.
In quali settori è indietro l’Italia? Premesso che, sempre secondo l’Eurostat, tra gli stessi Paesi più sviluppati della UE l’ Italia non è l’unica ad arrancare (basti pensare alle carenze della sanità pubblica in Olanda, dove, dal 2013 almeno, tutto il sistema delle provvidenze sociali e sanitarie è rimesso in discussione per la grave carenza di fondi; o alle lacune dello storico NHS in una Gran Bretagna che è ancora membro della UE, lacune cui il premier May vorrebbe porre rimedio proprio coi risparmi legati alla fine dei contributi britannici all’ Unione; o al degrado di tante aree periferiche urbane di Francia, Belgio, Svezia, già prima del “boom” dell’immigrazione extracomunitaria), entriamo un attimo nel dettaglio.
Premesso anche che gli obbiettivi che l’ Italia si pone (obbiettivi confermati, almeno sinora, anche dal governo Conte, al di là di tanti roboanti programmi di partito, o degli slogan dei vari leader) sono, chiaramente, più modesti di quelli generali della UE (ogni Governo nazionale ovviamente è libero di rimodulare, anzitutto quantitativamente, traguardi e relativi tempi di raggiungimento dell’ “Agenda 2020”, secondo la specifica situazione del suo Paese), la “palla al piede” dell’ Italia è rappresentata soprattutto da un ‘occupazione che non riesce a ripartire adeguatamente, da un basso tasso di scolarizzazione dei cittadini – nonostante i passi da gigante fatti dal nostro Paese negli ultimi cinquant’anni – e da un numero di poveri che è sempre troppo alto.
Più precisamente, sempre secondo gli obbiettivi di massima dell’Agenda 2020, tra il 2010 e il 2016 la percentuale degli occupati in Italia sarebbe dovuta salire in direzione del 67%, fissato appunto per il 2020. Va detto, però, che nello stesso 2010, al momento della stesura dell’Agenda 2020, l’Italia e altri Paesi UE (circostanza, questa, ben nota ai tecnici di Bruxelles) erano nel pieno dell’ondata di effetti a catena progatasi dagli USA con la crisi partita, nel 2008, dal crollo della super finanziaria Lehman Brothers. Ciononostante, dopo il calo al 59,7% del 2013 – l’anno forse di peggiore crisi economica in Italia dal 2008 in poi – la percentuale degli occupati da noi è risalita, nel 2017, al 62,3% (per effetto, probabilmente, soprattutto delle misure per rilanciare l’occupazione prese dal governo Renzi: specie con l’accollo da parte dello Stato, sino al primo trimestre 2018, di gran parte dei contributi previdenziali per i nuovi assunti nelle aziende).
Decisamente male, invece, va la lotta alla povertà (fenomeno legato, certo, anzitutto a disoccupazione e sottoccupazione, ma non solo). Nel 2016 in Italia risultavano ben 18 milioni di persone povere o a rischio: dato superiore di ben 5 milioni al massimo fissato, per quello stesso anno, sempre dall’ Agenda 2020 (13 milioni). E in ogni caso impressionante, perché pari a quasi un terzo della popolazione complessiva. Tra questi milioni di cittadini, ci sono – secondo l’ultimo rapporto (maggio 2018) dell’ONG per l’infanzia “Save The Children” – ben 1 milione e 300.000 ragazzi,1 su 10, residenti prevalentemente nel Mezzogiorno, che vivono in povertà assoluta.
Questi dati sono, purtroppo, confermati dall’ultimo Rapporto ISTAT sulla struttura e le diseguaglianze sociali in Italia (pubblicato a maggio scorso).I dati di quest’ultimo, comunque, sono stati raccolti ricorrendo a campionature della popolazione definite non più coi vecchi schemi – ottocenteschi e marxisti – delle classi sociali classiche ( borghesia, classe media impiegatizia, classe operaia, ecc…): ma in base a parametri nuovi, combinanti tra loro aspetti, oggi essenziali, come situazione professionale della persona, età, zona di residenza, titolo di studio, cittadinanza e appartenenza culturale di massima, ecc… Dall’adozione di parametri più moderni, infatti, è lecito aspettarsi (come già accade da anni in altri Paesi UE) la definizione di migliori correttivi alle disuguaglianze sociali.
Sul fronte istruzione, l’Italia va meglio, anche se molto resta da fare. Se infatti abbiamo anche superato l’ obbiettivo, fissato sempre dall’Agenda 2020, d’ un abbassamento del tasso d’ abbandono scolastico al 16% (siamo solo al 14%: dato che sembra mettere in soffitta le denunce di Don Lorenzo Milani e dei ragazzi della Scuola di Barbiana, a fine anni ’60, sul preoccupante tasso d’abbandono scolastico, dovuto in gran parte a una scuola ancora fortemente classista nell’Italia di allora, che pure era in pieno boom economico) , altrettanto non si può dire per il tasso di laureati in Italia. Che, in barba al “leit-motiv”, ricorrente ormai da 40 anni (peraltro, spesso non a torto), sui troppi laureati del nostro Paese, costretti quindi a restare senza lavoro o ad accettare i lavori più umili e sottopagati, ecc.., risulta addirittura tra i più bassi (26,9%) in tutta la UE (dove la media è il 39,9), secondo solo a quello della Romania (26, 3%). È evidente che la pletora di laureati in Italia è tale solo per le facoltà che forniscono (e non da ora) una bassa qualificazione professionale (caso classico, Lettere e Filosofia), o una preparazione che non sempre tiene conto di tutti i parametri oggi indispensabili per un proficuo svolgimento della professione, in un’Europa che, dal 1992 in poi, si configura sempre più come mercato unico delle professioni (è il caso, a volte, di Legge, o anche di Economia e Commercio). Questo, anche se diverse rilevazioni mondiali, citate ultimamente dalla stampa quotidiana, da anni confermano il forte miglioramento medio delle “prestazioni” fornite dalle Università italiane (tra cui la stessa “Sapienza” di Roma).
Sono più che positivi, invece i risultati nelle politiche energetiche: tra il 1990 e il 2016, infatti, l’Italia ha ridotto le emissioni inquinanti del 17 %, oltrepassando anzi di 4 punti il “target” fissatole dalla UE. Nel 2015, ha superato l’obbiettivo anche per quanto riguarda lo sviluppo delle energie rinnovabili (17,4% contro 17%), avvicinandosi anzi ai Paesi in questo campo all’avanguardia, come ad esempio Israele. Le energie rinnovabili, infatti, da noi hanno conosciuto, negli ultimi 5 anni, un forte sviluppo (legato, in buona parte, anche ai contributi statali per il passaggio a questo tipo di fonti). Il nostro, quindi, è un Paese, in questo campo, in linea coi parametri non solo dell’Agenda Europa 2020, ma anche, su scala mondiale, del vecchio Protocollo di Kyoto (accordo che, peraltro, non entrò mai pienamente in vigore, anzitutto per l’opposizione dell’amministrazione Bush Jr. in USA) e dei recenti Accordi di Parigi del 2015. Discorso analogo vale anche per il consumo totale annuale di energia. Già nel 2016 l’Italia è riuscita a ridurlo a 148,4 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (TEP): assai meglio rispetto alla data (il 2020, appunto), e, soprattutto, l’ammontare (158 milioni di TEP) richiesti da Bruxelles (partendo dai 181 milioni del 2005).
Infine (anche se può sembrare incredibile, trattandosi di una nostra tara storica, di cui si parla da quasi un secolo), l’Italia oggi va bene anche per quanto riguarda gli investimenti in innovazione e ricerca (con quanto merito, ci domandiamo, delle Pubbliche amministrazioni?): giunti a rappresentare, nel 2016, l’1,29% di spesa del PIL (l’obbiettivo per il 2020, ora davvero vicino, è l’1,53%). Insomma, lavorare per ridurre le seconde e sviluppare sempre più le prime, colmando anche negli altri campi il divario rispetto agli altri Paesi avanzati della UE, è il compito primario di tutti i governi dei prossimi anni.
di Fabrizio Federici