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Eurispes: Aumentare la consapevolezza del vantaggio di essere paesi Europei

Eurispes: Aumentare la consapevolezza del vantaggio di essere paesi Europei

In esclusiva per Kmetro 0 alcuni contributi di Laboratorio Europa, il think thank di Eurispes   K metro 0 – Roma – Non è il momento rallentare quel continuo lavoro fatto di miglioramenti progressivi di cui ha bisogno la costruzione europea. Anzi, è proprio questo il momento di rilanciare con proposte che, sulla base delle

In esclusiva per Kmetro 0 alcuni contributi di Laboratorio Europa, il think thank di Eurispes

 

K metro 0 – Roma – Non è il momento rallentare quel continuo lavoro fatto di miglioramenti progressivi di cui ha bisogno la costruzione europea. Anzi, è proprio questo il momento di rilanciare con proposte che, sulla base delle esperienze e delle conclamate carenze dell’Eurozona, completino le misure di integrazione e definiscano “nuove regole e nuove istituzioni che sappiano aumentare la consapevolezza collettiva dei vantaggi economici, sociali e politici per ciascun stato aderente”. Facendo perno su questo mantra Laboratorio Europa, un think thank di esperti coinvolti da Eurispes, fornisce proposte e analisi per contribuire, con un dibattito aperto, alla evoluzione del progetto comunitario. Alcuni di questi papers sono già sul tavolo del presidente dell’ente di ricerca, Gian Maria Fara. Siamo in grado di anticiparle, fornendone una sintesi per il lettori di Kmetro0.

Protezione sociale, un nuovo meccanismo per l’eurozona. Evidenzia Luciano Monti, professore di Politiche dell’Unione europea presso la Luiss e Condirettore scientifico della Fondazione Bruno Visentini, come tra i motivi della crescente sfiducia dei cittadini verso la costruzione europea non solo c’è l’idea che i meccanismi di prevenzione e gestione delle crisi si siano rivelati inadeguati, ma anche la diffusa percezione degli stessi europei di aver pagato il prezzo più alto della recessione. Cosa che rende ancora più urgente agire sul “Pilastro sociale” per rilanciare e consolidare la convergenza europea.

Lo studio di Monti per Laboratorio Europa ripercorre con chiarezza come sin dal 2013, e con maggior eco negli ultimi 4 anni, più voci istituzionali in Europa hanno sostenuto l’urgenza di sviluppare questo pilastro, sia per far fronte ai cambiamenti della realtà europea e generare crescita omogenea, sia per arginare l’impatto delle crisi occupazionali e garantire sostegno sociale e sanitario. La sua analisi degli attuali fondi europei dedicati alle politiche attive del lavoro e crisi occupazionali dimostra come questi abbiano avuto scarso impatto: “Nel dicembre 2017, cioè a metà dell’attuale periodo programmatorio, sono stati spesi solo il 12% del totale dei fondi programmati e ne sono stati impegnati circa la metà. Alcuni paesi hanno percentuali molto ridotte (…). La farraginosità delle procedure della gestione decentrata delle risorse, la frequente intermediazione degli enti formativi e la polverizzazione degli interventi non solo rallentano la spesa ma sovente la rendono inefficace”. Gli altri programmi europei per l’occupazione e l’innovazione (EaSi) e il fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG) hanno poi risorse esigue. Dunque bisogna virare verso un nuovo Pilastro sociale.

Varie le proposte fino a oggi sul tavolo: quella dei federalisti europei (sostenitori del bilancio UEM), quella degli economisti franco-tedeschi (fondo per la mitigazione dei rischi di crisi occupazionali), quella della stessa Eurispes (piattaforma dei diritti), quella del Governo italiano nel 2016 (meccanismo comune per mitigare la disoccupazione ciclica realizzato senza modificare i trattati), la proposta della Commissione Europea del 2017 (prodotti pensionistici paneuropei e graduale convergenza dei sistemi statali).

Pro e contro di ciascun progetto portano Luciano Monti a sviluppare la formulazione del Meccanismo comune per il sostegno della sicurezza sociale dei cittadini europei, denominato MSS, basato sul concetto che molto si può fare a trattati invariati e quindi oltrepassando resistenze procedurali e di attuale struttura del bilancio comunitario. In sintesi, il sistema assicurerebbe una protezione sociale minima che possa aggiungersi a quella del singolo paese membro per fornire ai cittadini europei prestazioni di disoccupazione, reddito e pensione di vecchiaia, assistenza sanitaria. “A tendere tale sistema sociale potrebbe sostituire permanentemente i sistemi nazionali costituendo una vera e propria previdenza europea gestita dal bilancio UEM.  Il successo del meccanismo potrebbe infatti generare consenso verso proposte di modifica in tal senso”. Tra le righe, non è difficile capire come l’urgenza sia dare un segnale di tutela e coesione “targata Europa” a tutti i cittadini, in particolare ai giovani, che hanno un futuro previdenziale a rischio a fronte delle oscillazioni del mercato, e a una popolazione con un alto tasso di invecchiamento. Tecnicamente, il meccanismo dovrebbe essere foraggiato da un contributo nazionale di ciascun paese, “calcolato in base non agli abitanti in età da lavoro ma su quelli effettivamente occupati, più una franchigia per gli interventi sulle emergenze occupazionali, con un addizionale contributo del paese membro ad evento terminato”. Man mano che il perimetro del meccanismo si espanderà dal sussidio europeo di disoccupazione al fondo pensionistico per giovani e giovanissimi fino alla mutualizzazione del sistema sanitario, le risorse verrrebbero adeguate. Un progetto di cui è difficile dare sin d’ora i tempi di realizzazione, ma per il quale lo studio di Monti individua con precisione le fonti di finanziamento, disegnando compiutamente un progetto che rappresenterebbe un’importante freccia all’arco della UE nel futuro.

 

Trasformare l’Eurozona, le ragioni politiche ed economiche

In modo complementare Maurizio Franzini e Umberto Triulzi, entrambi professori di politica economica presso La Sapienza, hanno fornito un quadro delle ragioni politiche ed economiche della necessaria trasformazione dell’Eurozona. In primis, si tratta di rivedere il “contratto” di adesione in base agli interessi di ciascun paese aderente, interessi che forse ledono quell’immagine” romantica” di un progetto europeo come foriero di un bene pubblico uguale per tutti senza nessuno sforzo. Ma il difetto dell’attuale costruzione, sostiene Franzini, è che gli interessi, i costi diseguali e i conflitti non sono stati previsti e regolati, e che non è ancora ben congegnato come massimizzare per tutti il “surplus netto” derivante dall’unione e come ripartirne equamente i frutti.

Lo “stare insieme” infatti di per sé non porta miglioramenti se a favore di uno si danneggiano altri partner dell’unione, ed è quello che sta accadendo. Inoltre, un’unione europea fatta di sole regole non solo blocca l’espansione di quella “torta di vantaggi” che i paesi aderenti potrebbero spartirsi ma finisce per tagliare questa torta già più piccola in fette diseguali.

Un “nuovo contratto sui vantaggi” dovrebbe riportare l’attenzione sulla creazione di un meccanismo di divisione dei rischi proprio per ridurli, dovrebbe limitare comportamenti concorrenziali sbilanciati all’interno della UE (l’esempio del surplus commerciale della Germania e di altri paesi), dovrebbe evitare diversi pesi e misure a seconda dei paesi per cui “a parità di difetto di credibilità, cioè di violazione delle regole, si gode di un ben diverso potere di far valere le proprie ragioni”.

Il primo passo per invertire la tendenza è definire e misurare vantaggi e costi, in modo da renderli espliciti, e avere piani chiari per massimizzare i benefici. Certo, questo significa anche convergere sulla individuazione dei benefici netti, capitolo che potrebbe chiarire quale sviluppo sociale l’Europa intenda avere. Su questo punto, Franzini, lascia aperto un realistico interrogativo.

A sostegno del ragionamento per il quale troppo poco e in modo opaco i paesi si siano impegnati nel contratto europeo, e quanto questo sia miope in termini di stimolo alla crescita, vengono le cifre raccolte nella relazione di Triulzi: gli investimenti nell’Eurozona sono oggi al palo, in particolare quelli in infrastrutture sono sotto i livelli pre-crisi e la spesa per R&S in UE sembra congelata al 2% del Pil, laddove in altre aree corre. Ancor più grigia la situazione in Italia, dove tra il 2005 e il 2015 gli investimenti fissi lordi sono precipitati del 26,3% (-90mld) e il rapporto tra investimenti e Pil ha toccato nel 2015 il minimo del 16,9 per cento, ben al disotto del livello ante crisi, e dove tutti gli indicatori macroeconomici (disoccupazione, produttività, consumi, investimenti pubblici) sono negativi. L’analisi riconosce che qualche segnale a livello europeo è stato dato dal cosiddetto Piano Junker, che nella migliore delle configurazioni copre però solo una parte del fabbisogno degli investimenti. Per l’Italia, la questione non è solo la limitata entità degli investimenti pubblici, ma anche la loro scarsa qualità. In entrambi i casi, bisogna mettere mano al “sistema di gestione degli investimenti”, proprio in un momento in cui “la presenza di rendimenti nominali negativi, sia per i titoli pubblici ma anche per i mercati obbligazionari, può essere una buona motivazione per i grandi intermediari finanziari (banche, fondi pensione, assicurazioni) a trovare soluzioni alternative per l’impiego delle rilevanti risorse finanziarie di cui dispongono”.

Meno investimento pubblico dunque e più raccolta di capitali per progetti avviati o da avviare ma che siano in grado di creare entrate e produrre un rendimento, giustificando investimenti privati di medio-lungo termine. Alcune proposte della Commissione europea vanno già in questa direzione, proponendo anche l’attivazione di Parternariati Pubblico-Privati anche per progetti di dimensioni medio-piccole per infrastrutture e servizi di grande rilevanza strategica: trasporti, energia (reti intelligenti/smart grid), infrastrutture sociali e urbane, banda larga, gestione rifiuti e sostegno alle PMI. Le grandi banche europee di sviluppo e gli organismi di investimento istituzionali sono già molto attenti e disponibili, eppure stenta a decollare il coinvolgimento degli operatori finanziari e dei risparmiatori europei, frenati da procedure amministrative inefficienti e carichi regolatori troppo pesanti. Non è possibile dire se la crescita qualificata degli investimenti potrà essere supportata da quello che è un altro tassello della costruzione europea, il mercato unico della finanza: sostiene il professor Mario La Torre, che firma l’articolo qui di seguito ed è anche lui contributor di Laboratorio Europa, che ci vorranno diverse generazioni perché il progetto di Unione bancaria e finanziaria in ambito UE veda davvero la luce.

di Daniela Bracco

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