K metro 0 – Roma – Il numero dei migranti che entrano in Europa attraverso il Mediterraneo ha subito negli ultimi quattro anni, con andamenti alterni, un aumento “senza precedenti”. Secondo lo European Council of Foreign Relations (The Mediterranean and Migration: Postcards from a Crisis, 2014-2017), nel 2017 hanno raggiunto le coste di Italia, Spagna
K metro 0 – Roma – Il numero dei migranti che entrano in Europa attraverso il Mediterraneo ha subito negli ultimi quattro anni, con andamenti alterni, un aumento “senza precedenti”. Secondo lo European Council of Foreign Relations (The Mediterranean and Migration: Postcards from a Crisis, 2014-2017), nel 2017 hanno raggiunto le coste di Italia, Spagna e Grecia 177.436 persone (368.980 nel 2016, 1.026.828 nel 2015, la maggior parte dalla Siria). Le politiche nazionali spesso hanno dato esiti insufficienti e non risolutivi: grazie agli accordi con la Libia nel luglio 2017, ad esempio, l’Italia ha visto diminuire gli sbarchi (119.369 nel 2017, 181.436 nell’anno precedente), “dirottando” i flussi verso altre traiettorie (22.103 arrivi per mare in Spagna nel 2017, nel 2016 erano stati 8.162). Tutti i paesi europei sono coinvolti: nel 2016 la Germania ospitava oltre un milione 800mila richiedenti asilo (451mila la Francia, l’Italia quasi 444mila); una percezione che si amplifica soprattutto in rapporto al tema del controllo delle frontiere interne ed esterne e della sicurezza, e impone all’Europa di rivedere, da una parte, l’applicazione delle normative di accoglienza, dall’altra le strategie messe in atto nei paesi di provenienza.
Il Regolamento di Dublino è il primo nodo da sciogliere: norma vincolante entrata in vigore nel luglio 2013, stabilisce che ogni stato membro gestisca autonomamente le domande dei richiedenti asilo. Una “pressione” non più sostenibile per i paesi di primo ingresso, che chiedono una redistribuzione delle responsabilità. I 28 paesi hanno approvato una bozza di accordo nel summit del 28-29 giugno a Bruxelles in cui si prevede la realizzazione di centri di accoglienza chiusi e “volontari” in territorio europeo e una limitazione dei movimenti secondari.
La rotta del Mediterraneo centrale è una delle più percorse. Quella orientale attraverso la Turchia, la Grecia e i Balcani ha visto un boom di oltre 800mila migranti nel 2015 in fuga da conflitti in Medio Oriente, mentre il numero di coloro che sbarcano sulle coste occidentali è addirittura quintuplicato dal 2014 al 2017 con il peggiorare della situazione socioeconomica in Algeria e delle tensioni politiche nella regione marocchina del Rif. Il cuore delle rotte migratorie africane è il Niger, principale centro di raccolta dove convergono le persone dirette verso nord, prevalentemente subsahariani, che possono muoversi liberamente secondo gli accordi con la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas). L’Ue è presente nel paese con missioni civili e militari: le truppe francesi sono schierate vicino a quelle statunitensi, a Niamey è posta una base tedesca e i soldati italiani sono stanziati a Madama, ultimo avamposto sulla frontiera nord. Con il supporto dell’Unione, il Niger ha inoltre adottato nel 2015 una legge contro il traffico di migranti, costringendo gli “illegali” ad affidarsi ad alternative più pericolose per passare il confine. Qui vengono rinchiusi nei centri di detenzione (circa 30 quelli ufficiali in Libia che ospitano oltre 700mila persone, tra cui quasi 50mila richiedenti asilo), strutture non adeguate e alla mercé di autorità e forze armate locali dove i migranti subiscono violenze ed abusi. In aumento nel 2017 anche gli sbarchi dalla Tunisia, prevalentemente tunisini in fuga da una grave instabilità socioeconomica in rapido deterioramento.
Nonostante la costituzione al vertice della Valletta 2015 di un Fondo fiduciario per l’Africa, e nonostante il quadro di partenariato stretto con Etiopia, Mali, Niger, Nigeria e Senegal (che non è mai stato ufficializzato), non sono stati finora raggiunti risultati concreti per arginare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Sono molti i push factors, i motivi che spingono intere comunità fuori dai loro paesi, tutti difficili da affrontare: l’altissimo tasso di fertilità (7,3 bambini per donna è il record mondiale del Niger), il poverty rate che in alcune zone oltrepassa il 60%, la progressiva desertificazione, la fame estrema, i conflitti armati di lungo corso, gli attentati da parte di al-Qaeda e Boko Haram. Nonostante qualche riforma significativa (il Gambia ha liberato i prigionieri politici e ha promesso di abolire la pena di morte), la situazione dei diritti umani, secondo il Rapporto Africa 2017/2018 di Amnesty International, è drammatica: alti livelli di instabilità politica, regimi totalitari altamente restrittivi in almeno 20 paesi, ridotta libertà di informazione, violenze sui civili, diversi casi di tortura registrati nell’anno in corso.
il punto di Vista: un Intervista A Marco Pacciotti
Coordinatore Nazionale del Forum Immigrazione del Partito Democratico
Caso “Aquarius”, a suo giudizio poteva essere gestito diversamente?
Il caso “Aquarius” sicuramente doveva essere gestito diversamente, anzi non sarebbe dovuto diventare neppure un “caso” come non lo è stato per anni, da quando fu inaugurata la campagna “Mare nostrum” con la collaborazione fra governi, Ong e forze militari con lo scopo di salvare le persone in mare, che è il primo imperativo di chiunque. In questo senso le Ong sono sempre state alleate del nostro paese e dell’Europa nel fondamentale lavoro di recupero e assistenza, un lavoro di civiltà. Aver posto “Aquarius” come condizione per un “casus belli” con Malta, poi con la Francia e la Spagna, cioè quei paesi che sul Mediterraneo devono essere i nostri alleati, e per arrivare a una ricontrattazione di Dublino è un errore strategico e una trovata elettorale.
Il PD e d’accordo sull’idea di riformare il regolamento di Dublino?
Assolutamente. Il regolamento di Dublino nasce molti anni fa con l’esigenza di redistribuire il carico dell’accoglienza fra i paesi europei; ad oggi sono cambiate le condizioni non solo politiche ma sociali, per cui lascia ormai il tempo che trova. Sembra, ed è, sempre più un trattato che segna la vittoria degli egoismi nazionali, specie nei paesi meno toccati dal flusso di migranti attraverso il Mediterraneo, a discapito di altri paesi. Questo non può essere: l’Europa è una comunità politica solidale, non solo un bancomat a cui alcuni stati, che oggi rifiutano di accogliere, pretendono però di accedere come fondi per la ricostruzione.
Con questo governo l’Italia può fare da mediatore tra i paesi del gruppo Visegrad e il resto dell’Europa?
L’Italia negli anni passati è stato uno dei paesi che ha investito di più su un’idea di Europa politica e solidale e ha tentato non di svolgere un ruolo di pontiere, ma di costruire un’alternativa comune, uno scenario europeo per affrontare un tema complesso e di scala globale. Oggi ci ritroviamo con un governo che, invece, si vanta di non aver partecipato alla discussione per la riforma del trattato di Dublino e che anzi occhieggia in modo pericoloso a Orban e a quei paesi che, riconoscendosi nel gruppo di Visegrad, maggiormente osteggiano non solo la riforma ma anche i cosiddetti spostamenti secondari, cioè quella redistribuzione che con tanta fatica negli anni passati il governo italiano è riuscito a ottenere.
speciale di Anna Maria Baiamonte