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Il cammino della civiltà. Parte settima

Il cammino della civiltà. Parte settima

K metro 0 – Roma – L’interrelazione fra il diritto e la cultura, fu efficacemente percepita da Kant (1752-1804), intendendo egli quest’ultima come manifestazione della ragione umana, che di concerto con il primo doveva procedere nello svolgimento della storia . L’uomo nel vivere associato doveva innanzi tutto fare ricorso alle sue facoltà razionali, poiché dalla natura

K metro 0 – Roma – L’interrelazione fra il diritto e la cultura, fu efficacemente percepita da Kant (1752-1804), intendendo egli quest’ultima come manifestazione della ragione umana, che di concerto con il primo doveva procedere nello svolgimento della storia .

L’uomo nel vivere associato doveva innanzi tutto fare ricorso alle sue facoltà razionali, poiché dalla natura stessa egli aveva ricevuto delle disposizioni dirette all’uso della ragione, che doveva rendere manifeste. Vi erano delle norme riconoscibili attraverso una razionalità sviluppata, le quali costituivano la condizione apriori della giuridicità, da cui doveva prendere le mosse l’ordinamento positivo. Anche egli teorizzò un sistema liberale, di derivazione contrattualistica, che era tuttavia vincolato a garantire i diritti pre-statuali e la cui legittimazione permaneva finché le sue norme erano conformi alla logica.

Sotto il profilo delle definizioni, il filosofo delle Ragione scrisse che il diritto era “l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro, secondo una Legge universale di libertà”, da attuarsi in un ordine normativo provvisto di sanzioni che ne garantissero l’osservanza.

Non ammise il diritto alla ribellione, neanche nel caso che il Sovrano avesse violato delle leggi costituzionali; ma fece ricorso alla fictio juris per cui la destituzione del Re andava considerata come una “spontanea” rinunzia alla Corona.

A fronte del diritto, che riguardava le azioni esteriori, e cioè comportamenti volti a perseguire delle finalità contingenti, proprie delle relazioni intersoggettive, si poneva con carattere di priorità l’etica, che riguardava le azioni interiori.

Quest’ultima rivolgeva all’uomo l’imperativo categorico di fare il bene per il bene, di compiere il dovere per il dovere, sintetizzabile nel celeberrimo motto:” Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me.”

In merito ai rapporti con gli altri, Kant formulò un altro imperativo categorico: “agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga legge universale.”

Era questa la legge del Dovere, dalla quale discendeva come corollario la libertà stessa.

L’uomo era infatti libero se ed in quanto si determinava secondo la legge morale, che era un principio assoluto a lui coessenziale.

Le motivazioni contavano per giudicare se un’azione fosse moralmente buona o meno; mentre non rilevavano ai fini della liceità giuridica della stessa, trattandosi qui di doverne considerare la mera conformità o meno all’ordinamento positivo.

Fautore della pace mondiale fra le genti, Kant sostenne la necessità di una solidarietà generale con i propri simili e del rispetto ovunque dell’uomo come fine e non come mezzo. Così come i cittadini si erano consociati nello Stato, i vari Stati dovevano aggregarsi in una Federazione, ispirata ai canoni del diritto naturale, come il principio di buona fede, o quello di rispettare i trattati al fine di assicurare una pace durevole: qui appare più che mai evidente la lungimirante modernità di Kant.

Gaetano Filangieri (1752-1788)nell’arco della sua pur breve vita ebbe modo di elaborare una poderosa Scienza della Legislazione, che mantiene ancor oggi degli spunti di viva attualità.

Tutta l’opera sua fu ispirata al principio che un buon Legislatore dovesse seguire i dettami della Ragione, perché le norme potessero valere sempre e dovunque.

Le leggi naturali, espressive del Giusto e dell’Equo, comuni a tutte le genti, erano “i dettami di quel principio di ragione universale, di quel senso morale del cuore, che l’Autore della Natura ha impresso in tutti gli individui della nostra specie, come misura vivente della giustizia e dell’onestà che parla a tutti gli uomini il medesimo linguaggio e prescrive in tutti i tempi le medesime leggi”.

Lo Stato avrebbe dovuto avere come obiettivo primario la tranquillità e le sue leggi avrebbero dovuto armonizzarsi prioritariamente con i principi della Natura, per potere conseguire la bontà assoluta. Di poi, per realizzare il fine della bontà relativa, occorreva che le norme mirassero ad accordarsi con il genio e l’indole dei popoli, il clima, la natura del terreno, la situazione locale, l’estensione del paese, la religione, il livello di maturità del popolo cui le leggi stesse erano indirizzate.

Pertanto i reggitori dello Stato erano tenuti ad operare nel rispetto dei diritti naturali, con il compito altresì di tradurli in precetti positivi, da adattare alle mutevoli necessità dei singoli popoli. L’individuo assumeva una posizione centrale e lo Stato doveva collocarsi come mezzo per la realizzazione dei suoi diritti, premessa indispensabile per l’uguaglianza di tutti innanzi alla legge e per una nuova politica, non più ex parte principis, bensì ex parte civium.

Cesare Beccaria (1738- 1794), autore del celeberrimo Dei delitti e delle pene, ricondusse la nascita del potere statale alla rinunzia effettuata contrattualmente dai cittadini a parte dei loro diritti, per ottenerne in cambio il benessere civile.

Allo Stato non doveva essere ceduto se non il minimo necessario ad assicurare la giustizia, che doveva essere rispettosa dei diritti umani e mirare più alla prevenzione che alla repressione dei crimini, avvalendosi a tal fine soprattutto dello strumento della cultura.

I castighi, da correlarsi a responsabilità personali e mai a colpe oggettive, non dovevano essere disumani, con la conseguenza che andavano abolite la tortura e la pena di morte.

Le pene dovevano essere miti, ma sicure, senza alcuna eccezione (come quella del potere di grazia), poiché il potere deterrente di una sanzione scaturiva non dalla sua gravità in astratto, quanto dalla certezza che venisse effettivamente applicata.

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