K metro 0 – Londra – Nel secondo anniversario del referendum popolare sulla Brexit, a Londra centomila manifestanti hanno marciato il 23 giugno, passando davanti a Dowming Street e fermandosi infine davanti al Parlamento a Westminster, per contestare la Brexit e chiedere un altro referendum nazionale per decidere in modo definitivo. Questo nel momento in
K metro 0 – Londra – Nel secondo anniversario del referendum popolare sulla Brexit, a Londra centomila manifestanti hanno marciato il 23 giugno, passando davanti a Dowming Street e fermandosi infine davanti al Parlamento a Westminster, per contestare la Brexit e chiedere un altro referendum nazionale per decidere in modo definitivo. Questo nel momento in cui il governo tory di Theresa May è da tempo impantanato nelle trattative con Bruxelles per definire in modo certo tempi -e, soprattutto, costi economico -sociali – della fuoriuscita dall’ Unione.
Tra i partecipanti alla marcia, -una delle più grandi dopo quelle dei primi anni 2000 contro la guerra in Iraq – anche l’ imprenditrice britannica Gina Miller, che due anni fa, pochi giorni dopo il voto sulla Brexit, aveva sorpreso l’opinione pubblica inoltrando subito all’ Alta Corte di Londra la richiesta di pronunciarsi sulla costituzionalità del referendum, o quantomeno sull’ opportunità che a decidere sulla questione fosse anzitutto il Parlamento (depositario della “funzione ispettiva” sugli accordi internazionali). Sono abbondati, nella manifestazione, i fischi contro il governo della May: la quale, per “allettare” l’ incerta opinione pubblica (e, soprattutto, i membri del Parlamento, che comunque, ai primi di luglio, farà la votazione decisiva sulla conduzione governativa del negoziato con Bruxelles), ha promesso ultimamente – in un’ intervista alla BBC per il 70mo anniversario della fondazione del National Health Service – che, dal 2021, lo Stato potrà rifinanziare il Servizio sanitario con 300 milioni di sterline settimanali, frutto del dividendo dei risparmi ottenibili con la Brexit, e destinati a salire addirittura a 600 dal 2023. In realtà – come ha ammonito Paul Johnson, Direttore dell’Institute for Fiscal Studies, più autorevole “Think tank” britannico- considerando che il Regno Unito si è comunque impegnato a pagare i contributi alla UE sino al 2020 almeno, un’uscita dalla Brexit non produrrà – almeno nei primi tempi – alcun dividendo.
Ma non sono mancate le forti critiche anche ai laburisti di Jeremy Corbin, la forza d’ opposizione che tuttavia, rientrando tra quei partiti europei di sinistra (come anzitutto il PCF francese) da sempre “tiepidi” – se non apertamente contrari- all’integrazione europea, non si sta certo impegnando molto sulla questione. Già nei mesi scorsi – come raccontato da “K metro 0” – s’ era formato un “Comitato antibrexi”, con la partecipazione di varie forze sociali e politiche. Ora, questa manifestazione – cui ha partecipato anche un vecchio reduce novantenne della Seconda guerra mondiale, richiamando il pubblico ai valori di allora – evidenzia chiaramente l’eterna incertezza della cultura politica britannica, da sempre “con un piede in Europa e l’altro nell’ Oceano”. E i paradossi del sistema politico: dove l’unico partito totalmente antieuropeista, equivalente del Front National francese, cioè quello di Nigel Farage, s’è dissolto proprio all’indomani del coronamento del suo sogno (cioè il referendum antiBrexit); e, tra i partiti storici, solo i liberaldemocratici (nati nel 1988), rappresentati alla manifestazione dal nuovo leader Vince Cable, si stanno pronunciando chiaramente per un nuovo referendum sulla Brexit. ” A quel punto sarà chiaro cosa significa veramente la Brexit”, ha ribadito Cable, ” e sarà giusto chiedere al popolo se vuole davvero lasciare la UE oppure, fatti i conti, se preferisce restarne parte”.
Sul piano giuridico- costituzionale, infine, considerando soprattutto la mancanza, in Gran Bretagna, d’ una Costituzione formale, disciplinante (come in Francia e in Italia) i referendum popolari, non è chiaro cosa potrà accadere in caso di voto contrario del Parlamento alla conduzione, da parte del governo, del negoziato sulla Brexit.
Tre, osserviamo, sono i possibili scenari: anzitutto, un voto del Parlamento che, pur bocciando il modo con cui il governo May ha negoziato con Bruxelles, non esprima la sfiducia nei suoi confronti, esortandolo quindi a riprendere il negoziato stesso. All’ opposto, sull’onda della contrarietà alla Brexit che sta manifestando buona parte dell’ opinione pubblica, mozione di censura al Governo, obbligato quindi alle dimissioni: seguite da nuove elezioni, oppure (cosa non del tutto improbabile) da un “ripescamento” del leader laburista Corbyn, che, giunto secondo al voto mesi fa, aveva fortemente contestato, sul piano delle percentuali, il risultato delle elezioni, vinte dai tories solo di stretta misura; rivendicando quindi il diritto di diventare lui Premier. Oppure ancora, niente crisi di governo ma appoggio del Parlamento alla richiesta popolare di nuovo referendum, risolutivo della “vexata quaestio”.
di Fabrizio Federici