K metro 0 – Intervista – Roma – Il Presidente dell’Eurispes, Prof. Gian Maria Fara, ha insegnato presso Università di Roma “Sapienza”, l’Università di Salerno, l’Università di Teramo, la Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma, la LUISS e la LUMSA di Roma. Dal 1999 al 2004 è stato Presidente dell’IPSEMA (Istituto di Previdenza per il Settore
K metro 0 – Intervista – Roma – Il Presidente dell’Eurispes, Prof. Gian Maria Fara, ha insegnato presso Università di Roma “Sapienza”, l’Università di Salerno, l’Università di Teramo, la Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma, la LUISS e la LUMSA di Roma. Dal 1999 al 2004 è stato Presidente dell’IPSEMA (Istituto di Previdenza per il Settore Marittimo). Dal 1990 al 2011 è stato membro del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali. È membro del Comitato scientifico dell’Istituto per l’Europa dell’Accademia delle scienze di Russia e del Comitato Scientifico della Fondazione Italia-USA. È Vicepresidente dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare di Coldiretti.
Presidente come dovrebbe gestire l’Esecutivo italiano l’attuale fase di recessione, al fine di uscire efficacemente dalla crisi economico-finanziaria post pandemia?
La situazione è complessa e quindi non si possono offrire ricette semplici per affrontare un momento storico di così grande portata da essere giustamente paragonato, da molti commentatori, al periodo post bellico che ha interessato in particolare l’Occidente alla fine della Seconda guerra mondiale. Vero è che le variabili oggi sono differenti, ancora più gravi se vogliamo, poiché si tratta di evento avverso che ha toccato in maniera profonda tutte le strutture sociali ed economiche del globo, tutti i paesi, ormai praticamente senza eccezioni.
Quelli a cui stiamo assistendo sono grandi processi di discontinuità e di rottura con il sistema di certezze e di sicurezze che hanno guidato a lungo le nostre società.
Nel caso dell’Italia, se dovessi immaginare le possibili mosse vincenti per fronteggiare la crisi, sicuramente, tenterei di proiettarmi verso il futuro, non quello prossimo. Ripartirei dall’idea di progetto e dalla capacità di saper programmare. Sia pure con le naturali diversità culturali, io credo che il bisogno più diffuso presso la larga parte dei cittadini è quello di vedere i diversi soggetti politici collaborare nell’interesse generale del Paese.
Elaborare dunque un percorso politico, che sia finalizzato alla realizzazione di un progetto condiviso, fondato su basi solide, sostenibile nel tempo, al di là delle insufficienze o delle divergenze, culturali ed etiche delle persone. Nel nostro caso, poi, l’idea di futuro non può che essere legata all’Europa che era e rimane un grande progetto, un’unione di intenti che però ancora non si riesce a far funzionare, sul quale occorre invece concentrare tutte le energie.
Infine, ribadisco, ancora una volta, la necessità di uscire da una logica assistenzialista di sussidi e creare un sistema di investimenti articolato e ragionato per promuovere l’economia delle imprese, l’artigianato e la valorizzazione del territorio attraverso quegli interventi strutturali già ampiamente individuati grazie a lunghi decenni di riflessioni e dibattiti.
Per il nostro Paese, questa crisi pandemica potrebbe essere davvero il punto di svolta per traghettare l’Italia in una dimensione di crescita e di ammodernamento, tanto attesa.
Lo scorso anno avete definito l’Italia la “Repubblica del Nì”: è ancora della stessa opinione? E se sì, perché?
Abbiamo definito il nostro come il “Paese del Ni”, che non riesce mai ad esprimersi in maniera definitiva con un “No” o con un “Sì”. Indecisione, nella quale le scelte non sono chiare e restano soggette a cambiamenti o capovolgimenti. Osservando la nostra storia recente, mai si erano espresse una tale “capacità di indecisione”, una così grande confusione di ruoli e di responsabilità, una così netta separazione tra dichiarazioni, annunci e fatti. Una così grande distanza dal sano buon senso. Si tratta di una vera e propria patologia che non risparmia nessuno degli attori pubblici in campo e che segna, in forme diverse, le stesse Istituzioni.
Direi che abbiamo scattato una fotografia nitida del Paese, valida ancora oggi. Ma, tornando al discorso di prima, questo non vuol dire che non possa esserci un cambiamento. Le crisi rappresentano un’opportunità, lo sappiamo, e io credo che questo possa essere più vero proprio per chi, come noi, non è ancora del tutto “strutturato”, non ha raggiunto pienamente gli obiettivi di una modernizzazione. Cambiare, sotto la spinta della crisi epocale in atto, potrebbe addirittura rivelarsi più semplice per noi rispetto ad altre nazioni legate ad un’idea “inflessibile” di se stesse.
Come sociologo, quale cultura politica intravede nel nostro Paese? Siamo sempre di fronte ad uno “spirito feudale” della classe dirigente?
All’origine delle patologie che segnano i percorsi di questo Paese vi è stato uno scivolamento progressivo verso forme più o meno evidenti di neofeudalesimo.
Il sistema socio-politico italiano si è trasformato nel tempo in un coacervo di istituzioni, usanze, consuetudini e prassi di stampo feudale.
Invece di realizzare un moderno federalismo, l’edificazione in periferia di un’architettura amministrativa e politica fortemente decentrata, con il ruolo e l’elezione diretta di presidenti di Regioni, di Province e sindaci, ha confermato ancora di più questa deriva neofeudale. Si sono moltiplicati i centri di potere e di spesa senza responsabilità e controllo. Così una riforma, considerata indispensabile per modernizzare il Paese, si è trasformata in una zavorra che rischia di affondare lo stesso sistema politico e istituzionale.
Nello stesso tempo, il protagonismo di taluni sindaci e presidenti regionali, la loro forza sul territorio, la loro possibilità di porre ostacoli a volte insormontabili agli indirizzi e alle politiche unificanti del Governo centrale, somigliano sempre più alle intemperanze che vassalli, valvassori, valvassini manifestavano periodicamente nei confronti del sovrano, rivendicando un potere di veto rispetto alle decisioni assunte dal centro.
Per diversi aspetti, anche la Pubblica amministrazione si poggia su uno spirito feudale. I cittadini e le imprese non pagano quotidianamente opprimenti diritti di servaggio e di corvées ad élite burocratiche autoreferenziali per svolgere la propria attività o per ottenere il riconoscimento di diritti e facoltà previsti dalla legge? L’azione di alcuni dirigenti di Amministrazioni pubbliche, superpagati e incompetenti, non ricorda forse quegli antichi signorotti feudali che, rinserrati nel loro feudo, protetti dal sovrano, cercavano di massimizzare la propria rendita di posizione, imponendo pesanti diritti di passaggio? Questi “moderni” manager delle burocrazie centrali e locali non rappresentano forse il crocevia privilegiato, il luogo di scambio in cui avviene la compensazione degli interessi tra politica, imprese e Pubblica amministrazione?
Il sistema di imposizione fiscale poi con le sue gabelle, tasse, imposte, balzelli, completa l’edificio neofeudale, assicurando la possibilità a chi gestisce la cosa pubblica di amministrare e spendere le risorse collettive senza una “ratio” e spesso senza un fondamento. In questo schema, il distacco tra i cittadini (i tassati) e la politica (che impone le tasse) diventa incolmabile e la crisi dello Stato da fiscale diventa morale, perché la dilatazione del prelievo tributario, assumendo i contorni di una vera e propria perversione istituzionale, diventa espressione diretta della decisione politica di spendere senza una finalità certa, chiara e trasparente agli occhi dei cittadini.
I cittadini, dunque, considerando tutti questi aspetti, finiscono con l’accumulare un astio ed un risentimento sempre crescenti.
Relativamente alla Libia e al suo contesto attuale: l’Europa riuscirà mai a convergere verso una posizione univoca?
Probabilmente e purtroppo no. L’Europa oggi non è quella immaginata dai Padri fondatori. Si è realizzata un’unione economica, ma anche in questa esistono, come abbiamo potuto osservare ancora più da vicino nell’emergenza della pandemia, ancora delle forti disparità tra un paese e l’altro in termini di peso politico e di decisionalità.
Non esiste, ad oggi, una politica estera europea comune, non siamo stati in grado di accordarci in una linea univoca da perseguire all’interno delle diverse “partite” internazionali. Ogni Stato, sebbene membro dell’Unione, ha una propria politica nelle questioni che riguardano i paesi esteri e la persegue. Al massimo, si possono formare delle coalizioni tra alcuni paesi, dove gli interessi appaiono più forti e gli obiettivi da raggiungere necessitano di maggiore peso politico per essere realizzati.
Il fenomeno dell’immigrazione ha assunto un carattere di emergenza negli ultimi anni anche attraverso la narrazione dei media, eppure sembra essere uno dei grandi temi dimenticati a causa della pandemia. Secondo le analisi realizzate dall’Istituto di ricerca che presiede, qual è l’apporto reale della componente immigrata nel nostro Paese? Gli stranieri rappresentano davvero una zavorra per la nostra società?
Gli immigrati regolari in Italia sono circa cinque milioni (5.255.000 pari all’8,7% della popolazione) e gli irregolari, circa cinquecentomila, la loro presenza è decisamente inferiore a quella che si registra in molti altri paesi.
I lavoratori immigrati in Italia producono il 9% del Pil, circa 139 miliardi di euro annui; il denaro che spediscono ai loro familiari (6,2 miliardi annui) è molto più importante per il sostegno ai paesi di origine di quanto non sia quello che l’Italia destina agli aiuti internazionali allo sviluppo. Chi dice “aiutiamoli a casa loro”, sostenendo che si debbano finanziare i paesi di origine, trascura il fatto che siano proprio gli immigrati, con le loro rimesse, che si aiutano da soli a casa loro. Così come è stato per i nostri emigranti nel corso di più di un secolo.
Si tratta, peraltro, di aiuti più proficui dei nostri: il denaro che arriva direttamente alle famiglie evitando l’intermediazione di apparati pubblici, connotati da un alto livello di corruzione, e di imprese che utilizzano per se stesse gran parte dei fondi, incentiva, nei paesi di origine, i consumi e gli investimenti, ma anche il livello di istruzione dei familiari, l’accesso ai servizi sanitari, migliora le condizioni abitative.
I dati ufficiali sono nettamente in positivo per lo Stato. Il bilancio tra costi e ricavi segnala un saldo attivo di 3,9 miliardi. I lavoratori stranieri in Italia sono il 10,5% degli occupati, tra loro vi è un numero crescente di lavoratori autonomi, le loro piccole imprese (oltre 700.000) assumono centinaia di migliaia di italiani e sono di origine straniera il 9,4% degli imprenditori “italiani”.
Gli immigrati versano 14 miliardi annui di contributi sociali e ne ricevono solo 7 tra indennità di disoccupazione e pensioni. I loro contributi ci permettono di pagare oltre 600.000 pensioni. Mentre un italiano su 4 riceve prestazioni e non paga contributi perché ha più di 65 anni, tra gli immigrati, che sono più giovani, in queste condizioni sono solo il 2,5%. Anche l’Istat lancia l’allarme: l’effetto di una diminuzione dei flussi di immigrati comporterebbe, nel 2040, 63 miliardi di contributi in meno, se l’immigrazione dovesse mantenersi o, peggio, calare, il debito pubblico tenderebbe ad aumentare sensibilmente.
Per stabilizzarlo, l’Italia dovrebbe aumentare la popolazione di 1/3. Solo gli immigrati che fino ad oggi hanno appena compensato il numero di emigrati, possono contribuire ad evitare lo spopolamento del Paese, a riequilibrare la struttura demografica, a rendere il welfare più sostenibile, ad aumentare il livello di innovazione, imprenditorialità e produttività.
Diversi anni fa, era il 2003, lanciai questa proposta provocatoria: “Meglio i porti di giorno che le spiagge di notte”. Liberalizzare gli ingressi degli immigrati, riceverli non sulle spiagge di notte, ma nei porti di giorno: un provvedimento che avrebbe l’immediato effetto di impoverire le organizzazioni criminali che spesso creano un vero e proprio “bisogno indotto” di emigrare verso l’Italia. Un accesso ben regolato e alla luce del sole, provocherebbe una caduta della domanda di immigrazione, almeno per quanto riguarda la componente indotta, ma non solo. La clandestinità per chi vive in Italia senza alcuna “vocazione” criminale non avrebbe più ragione d’essere, per cui lo Stato sarebbe pienamente legittimato ad usare un atteggiamento ancora più “deciso” nei confronti di una clandestinità residuale.