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Festival di Venezia 2019. L’attesa per un “buon cinema”

Festival di Venezia 2019. L’attesa per un “buon cinema”

K metro 0 – Venezia – L’attesa per un buon cinema, da una parte, e quella per tanti divi in passerella, dall’altra. Si presenta così come del resto accade da anni, la 76esima edizione del Festival di Venezia, in scena dal 28 agosto al 7 settembre. Una selezione ricca almeno sulla carta, quella predisposta dal

K metro 0 – Venezia – L’attesa per un buon cinema, da una parte, e quella per tanti divi in passerella, dall’altra. Si presenta così come del resto accade da anni, la 76esima edizione del Festival di Venezia, in scena dal 28 agosto al 7 settembre. Una selezione ricca almeno sulla carta, quella predisposta dal direttore Alberto Barbera, sempre attento a calibrare le giuste dosi del menu della Mostra per un pubblico eterogeneo, da quello più esigente che va in laguna per vedere film di grande qualità negli stili e nei contenuti – pellicole peraltro che purtroppo difficilmente arriveranno nelle sale – a quello meno legato al cinema d’arte.

Attento anche alle attese patriottarde, il direttore tra i 21 film in concorso ha messo anche 3 film italiani. Per una cinematografia che arranca e che stenta ad avere risultati soddisfacenti sia negli incassi, sia in una riconoscibile qualità, è un ennesimo atto di fiducia e di ottimismo. Ed ecco allora Mario Martone con Il sindaco del rione sanità, l’opera di De Filippo che ora il regista porta sullo schermo in forma di vero e proprio film di finzione dopo averla proposta a teatro; Franco Maresco che firma da solo, dopo il distacco con il sodale di “cinico tv” Daniele Ciprì, La mafia non è più quella di una volta, film che fin dal titolo rivela uno stile di stampo grottesco su Cosa nostra; e il meno noto ma apprezzatissimo dai cinefili Pietro Marcello con Martin Eden, che il regista trae dal romanzo di Jack London portandolo in un’Italia che va dagli anni ’10 ai giorni nostri: storia di emancipazione attraverso una cultura che arriva da esperienze di strada, con interprete Luca Marinelli. Vale la pena di aggiungere che il regista Marcello è legato a tematiche e personaggi relegati nei “bassifondi” della società, come accadeva nel suo primo film La bocca del lupo, che dieci anni fa vinse al festival di Torino, unico italiano in 35 edizioni ad aver ottenuto questo prestigioso riconoscimento.

In gara tanti altri autori con film che giustificano legittime aspettative. Ad astra, con Brad Pitt, Donald Sutherland, Tommy Lee Jones, fantascienza firmata dall’americano James Gray; fantascienza come pretesto, certo, giacché dietro c’è la storia con risvolti inquietanti di un giovane alla ricerca del padre misteriosamente scomparso nel cosmo durante una missione spaziale.

J’accuse, di Roman Polanski, sull’affare Dreyfus; dietro le quinte dello storico caso giudiziario, non si può non pensare alle tormentate vicende personali che inseguono da decenni il regista.

Joker, di Todd Philips, con Joaquin Phoenix e Robert De Niro, una specie di “antefatto” della serie dei film su Batman, pellicola molto “dark”, si dice, destinata agli schermi di tutto il mondo, che figura in concorso nonostante il suo genere non propriamente da cineteca.

La verité, primo film non giapponese di Hirokazu Kore-eda, regista di culto per cinefili che da qualche tempo è arrivato anche nelle sale, Palma d’oro a Cannes l’anno scorso con Un affare di famiglia, che schiera Catherine Deneuve, Juliette Binoche e Ethan Hawke, un altro “affare di famiglia” qui in ambienti altoborghesi con verità nascoste e inconfessate.

The Laundromat, di Steven Soderberg, con Meryl Streep, Gaary Oldman, Antonio Banderas, sullo scandalo dei Panama papers.

Marriage Story, di Noah Baumbach,, cinquantenne regista americano che molti considerano erede di Woody Allen, con Scarlett Johansson e Adam Driver. Questi ultimi due film sono prodotti da Netflix, la società americana che produce film destinati esclusivamente alla trasmissione in Tv, e, a seconda dei casi,di volta in volta lasciati anche alla visione nelle sale. E a questo riguardo, il “caso Netflix” almeno da noi sembra archiviato. Mentre Cannes continua a rifiutare i suoi film se non vengono programmati anche in sala, Venezia li promuove mettendoli in concorso: senza polemiche, senza più rivendicazioni della centralità della sala per il cinema.

E poi ancora in concorso tra gli altri titoli Waiting for the barbarians, del colombiano Ciro Guerra, con Johnny Depp; Ema, di Pablo Larrain; About Endlessness, dello svedese Roy Anderson, già Leone d’oro alcuni anni fa con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza; Wasp network, di Olivier Assayas, vicende di tensioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba.

Tra le star di scena al Lido, Roger Waters con un documentario che ricostruisce alcuni suoi concerti in giro per il mondo, e Mick Jagger, che figura come misterioso collezionista d’arte nel film di Giuseppe Capotondi The burnt orange heresy girato in Italia, lago di Como. E poi ancora, i Leoni alla carriera, Pedro Almodovar e Julie Andrews.

Non mancano a Venezia le serie Tv. Accanto a The new pope, seguito di The Joung pope, di Paolo Sorrentino, c’è anche Zero zero zero, che Stefano Sollima ha tratto da Saviano.

Altri italiani nelle varie sezioni, Gabriele Salvatores con Il mio folle amore, interpreti Diego Abatantuono, Claudio Santamaria, Valeria Golino; Vivere, di Francesca Archibugi, con Michaela Ramazzotti.

Un programma estremamente variegato, dunque, per Venezia 76. Il direttore Barbera suggerisce attenzione per le figure di donne sparse tra i film, per vicende legate a un passato da rivisitare, per le riflessioni sulla storia del presente.

Con le inevitabili “attrazioni” e la ricerca di un cinema che vale, che dica qualcosa di nuovo anche quando racconta cose vecchie e magari, chissà, fuori dagli schemi, non necessariamente omologato.

 

di Nino Battaglia

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