K metro 0 – Londra – Le furbizie procedurali e l’avvicinarsi del precipizio del no-deal non hanno portato al miracolo: Theresa May ha visto bocciare per la terza volta e con ampio margine l’accordo di uscita negoziato con l’Ue, malgrado l’offerta delle proprie dimissioni in cambio dell’approvazione della Camera. Un risultato in realtà non a
K metro 0 – Londra – Le furbizie procedurali e l’avvicinarsi del precipizio del no-deal non hanno portato al miracolo: Theresa May ha visto bocciare per la terza volta e con ampio margine l’accordo di uscita negoziato con l’Ue, malgrado l’offerta delle proprie dimissioni in cambio dell’approvazione della Camera. Un risultato in realtà non a sorpresa dato che i nordirlandesi del Dup avevano annunciato già ieri la loro indisponibilità al voto e altrettanto aveva fatto il partito Laburista; quanto all’autosacrificio di May, in molti l’hanno interpretato solo come una questione di lotta di potere interna al partito Conservatore. La mozione non avrebbe di fatto approvato l’accordo di uscita (delegato ad un successivo provvedimento legislativo ad hoc), ma avrebbe permesso a Londra di ottenere la proroga dell’articolo 50 fino al 22 maggio, come accordato in sede di Consiglio Europeo: ora, in mancanza di novità sostanziali, il 12 aprile la Gran Bretagna rischia di uscire con un no-deal – come ha sottolineato in un comunicato la stessa Commissione Europea. Solo 5 laburisti hanno votato a favore dell’accordo sulla Brexit raggiunto dalla premier Theresa May con l’Ue. L’analisi del voto con cui la Camera dei Comuni ha bocciato l’intesa, per la terza volta, evidenzia che la proposta del primo ministro non ha assolutamente fatto breccia nell’opposizione. I 286 voti a favore dell’accordo sono quasi tutti riconducibili al partito conservatore (277). Oltre ai 5 membri del Labour (Sir Kevin Barron, Rosie Cooper, Jim Fitzpatrick, Caroline Flint e John Mann), hanno votato a favore dell’accordo 4 indipendenti (Ian Austin, Frank Field, Sylvia Hermon e Stephen Lloyd). Tra i 344 no spiccano 234 voti laburisti, 34 conservatori, 34 del partito nazionale scozzese, 16 indipendenti, 11 libdem, 10 del partito unionista nordirlandese (Dup), 4 del partito del Galles e 1 verde.
Quali possano essere queste novità – tali da convincere i Ventisette a concedere una proroga a lungo termine, e sempre a condizione che la Gran Bretagna organizzi le elezioni europee – non è affatto chiaro: il leader laburista, Jeremy Corbyn, ha invitato May ad accettare finalmente il giudizio dei parlamentari e a cambiare il suo piano, o in caso contrario ad andarsene e indire nuove elezioni. “La Camera dei Comuni è stata chiara: l’accordo sulla Brexit deve essere cambiato e se la Primo ministro non è in grado di accettare questo fatto deve lasciare e indire delle nuove elezioni”, ha detto. Non è peraltro detto che anche in questo caso dalle urne esca una maggioranza con le idee più chiare, ma quanto meno la prospettiva di un cambiamento elettorale potrebbe convincere un’Ue che per quanto spazientita vorrebbe ancora evitare di vedersi costretta a forzare un no-deal. May non si è pronunciata immediatamente sulla questione delle dimissioni o sulla prospettiva di un ritorno alle urne, limitandosi ad affermare che a questo punto “è quasi certo” che Londra dovrà organizzare quanto meno le europee – il che implica una qualche soluzione alternativa al no-deal. Dopo la nuova bocciatura dell’accordo sulla Brexit negoziato con Bruxelles, la Gran Bretagna dovrà trovare “una via alternativa per procedere”, ha detto la premier britannica Theresa May, secondo la quale questa “quasi certamente” implicherà la partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee di fine maggio. Lunedì i Comuni dovrebbero votare su altri piani alternativi all’uscita dall’Ue senza accordo, che in questo momento, senza diverse soluzioni, è in agenda per il 12 aprile.
I Ventisette hanno immediatamente convocato un Consiglio europeo per il 10 aprile, due giorni prima della scadenza al momento definitiva, nell’evidente speranza che May – o chi per lei- possa mettere sul tavolo una qualche proposta più allettante. Ma l’accordo, se Londra manterrà le stesse basi, rimane non negoziabile e l’unico spiraglio di trattativa (per giunta senza garanzie, dato che serve l’unanimità dei Ventisette) riguarda solo la dichiarazione politica, non vincolante ma che data la questione del “backstop”, è la principale preoccupazione dei nordirlandesi. Sta di fatto che May si trova senza alcun piano B: anche una bocciatura di giustezza – non esclusa dagli osservatori – prima del voto le avrebbe lasciato dei margini per un eventuale terzo “meaningful vote” sotto forma di provvedimento di legge. Ma con 344 voti contrari (fra cui 34 tories) a fronte dei 286 favorevoli espressi oggi, una tale prospettiva non sembra presentare molte speranze di riuscita. Quello che rimane è un cambiamento di strategia a breve e medio termine sufficientemente radicale da convincere i Ventisette: un nuovo piano, nuove elezioni, un secondo voto popolare – tutti scenari in cui le dimissioni di May sembrano un dato acquisito, così come la necessità di una lunga proroga e del voto europeo; ma non si vede quale altro esponente Tory possa fare molto di meglio nelle attuali condizioni in cui versa il partito, peraltro ancora avanti nei sondaggi rispetto al Labour.
Secondo un responsabile del Consiglio europeo, l’Ue attende indicazioni da parte del Regno Unito “in tempo sufficiente affinché il Consiglio europeo possa esaminarle”. I dettagli sono ancora da stabilire ma, come nella riunione del 21 marzo, Theresa May potrebbe partecipare all’inizio del summit, precisa la fonte. Quando l’Ue ha concesso a Londra il rinvio della Brexit dal 29 marzo, che era la data di divorzio prevista inizialmente, aveva stabilito che il Regno Unito sarebbe uscito il 22 maggio in caso di approvazione dell’accordo di May da parte della Camera dei Comuni, mentre in caso contrario avrebbe avuto tempo fino al 12 aprile per indicare la strada da seguire.
di Beppe Pisa