Birmania: I militari prolungano lo “stato di emergenza”

Birmania: I militari prolungano lo “stato di emergenza”

K metro 0 – Naypyidaw – I fiori di Yangon … e i cannoni di Min Aung Hlaing. Era cominciata da Yangon  (Rangoon) l’ex capitale della Birmania (oggi Myanmar), la resistenza pacifica  al golpe militare del 2021. Con famiglie che davano vita a manifestazioni spontanee di protesta popolare armate di pentole che la sera battevano ritmicamente per contestare

K metro 0 – Naypyidaw – I fiori di Yangon … e i cannoni di Min Aung Hlaing. Era cominciata da Yangon  (Rangoon) l’ex capitale della Birmania (oggi Myanmar), la resistenza pacifica  al golpe militare del 2021. Con famiglie che davano vita a manifestazioni spontanee di protesta popolare armate di pentole che la sera battevano ritmicamente per contestare la giunta del   generale Min Aung Hlaing, che aveva spodestato il presidente, democraticamente eletto, Win Myint e la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi attraverso un colpo di Stato   col quale aveva imposto lo stato di emergenza. 

Ma poi, nel giro di un anno, la protesta pacifica si era trasformata in lotta armata. Non bastava più mettere fiori nei cannoni. Niente più cortei, manifestazioni, scioperi dei negozi. Le lotte di allora si sono trasformate nei mille rivoli di una guerra civile che  l’1 febbraio scorso è entrata nel suo quinto anno di vita.  

E in questa data si è riunito a Naypydaw, la nuova capitale della Birmania, città  fantasma senza storia e senz’anima,  un insediamento pianificato e realizzato dalla giunta militare al governo da oltre mezzo secolo, dove è rinchiusa l’ex premier  Aung San Suu Kyi (premio Nobel per la pace nel 1991) il Consiglio nazionale di difesa e sicurezza che ha affidato a Min Aung Hlaing il discorso di rito: la promessa di libere elezioni   e “soluzioni politiche che richiedono il dialogo al tavolo dei negoziati” a cui nessuno si vuol sedere…

Salvo, forse, l’Alleanza nazionale democratica (Mndaa), un gruppo etnico ribelle attivo nel nord-est del paese, che ha raggiunto un accordo formale per il cessate-il-fuoco con la giunta golpista. L’annuncio della tregua,  come ci informa Vatican News (21 gennaio 2025, 16:37) è stato dato dalla Cina, che sta mediando tra le parti. L’auspicio è che possa trattarsi di un passo verso una soluzione pacifica del conflitto che insanguina e affama la popolazione, anche se in passato analoghe intese sono state disattese.

Ma intanto l’esercito birmano continua ad agire in violazione del diritto e delle norme internazionali. Sta lanciando  attacchi aerei e via terra contro le infrastrutture civili, uccidendo e ferendo migliaia di civili tra cui donne, bambini e anziani. L’esercito ha anche arrestato e detenuto arbitrariamente almeno 28.000 persone in quattro anni; tra loro, 21.700 persone, tra cui 4.160 donne, rimangono imprigionate in condizioni degradate. Dall’interrogatorio alla prigionia, questi civili innocenti affrontano la tortura e il trattamento crudele o disumano da parte dei militari. Senza cure mediche e assistenza legale. Più di 6.200 civili sono stati uccisi dopo il golpe, anche a seguito di condanne a morte decise dai militari.

La popolazione, ha iniziato una resistenza armata senza precedenti. Culminata con un’alleanza tra i principali gruppi etnici ribelli per fronteggiare la giunta militare.

Un conflitto lontano dai riflettori internazionali che colpisce prevalentemente la popolazione civile. Secondo le ultime stime, si contano oltre 15.000 morti, decine di migliaia di feriti e più di un milione di sfollati interni, costretti a vivere in condizioni disastrose, con serie difficoltà a reperire cibo, acqua e medicinali. Per l’Unicef, più di 5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria e 8 milioni di minori non hanno istruzione. L’economia è al collasso, con un tasso di disoccupazione al 40 per cento.

E mentre i ribelli avanzano, conquistando numerose città e villaggi, il procuratore della  Corte Penale Internazionale, Karim Khan, ha  presentato una richiesta per un mandato d’arresto nei confronti di Min Aung Hlaing, comandate in capo dell’esercito del Myanmar, accusato di crimini contro l’umanità verso la popolazione dei Rohingya

Gruppo etnico prevalentemente di religione musulmana, ai Rohingya, che risiedono nello Stato di Rakhine in Myanmar, è stata negata la cittadinanza  per motivi religiosi nel 1982. E nel corso degli anni  hanno subito severe persecuzioni da parte di diversi governi birmani, condotte sia dalla polizia che dall’esercito, il “Tatmadaw”. Persecuzioni sfociate nella pulizia etnica e nella migrazione forzata di centinaia di migliaia di Rohingya. Secondo Human Rights Watch,   un milione di Rohingya vive con lo status di rifugiato nel Bangladesh, mentre circa 600mila sono rimasti nel Rakhine, continuando ad affrontare discriminazioni e repressioni.  Intrappolati nel fuoco incrociato  dell’esercito birmano e delle milizie di Arakan (nome geografico storico dello Stato di Rakhine) un gruppo etnico che  controlla ora 14 delle 17 municipalità dello Stato birmano occidentale.

Il 2024 è stato il peggiore anno dal 2017 per quanto riguarda le violenze contro la comunità Rohingya  (scrive l’Agenzia Fides, organo  di informazione  delle Pontificie Opere missionarie). Solo nel 2024, oltre 7.800 Rohingya (l’80% in più rispetto al 2023) hanno tentato di fuggire dal Myanmar in barca, per sottrarsi ad atrocità sempre più intense, aggravate da una crisi economica in peggioramento, livelli di povertà in aumento e reclutamento forzato da parte dell’esercito, che  non lascia altra scelta ai civili se non quella di fuggire in altre aree di conflitto armato o nei paesi limitrofi. L’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati segnala oltre 3,5 milioni di civili sfollati e 1,4 milioni rifugiati dal Myanmar, sebbene i numeri effettivi siano significativamente più alti secondo la società civile locale. Dai campi per sfollati negli Stati Karenni e Karen, ai luoghi di rifugio in Thailandia e Bangladesh, a nessuno di questi civili è garantito un accesso adeguato ai mezzi di sostentamento o alla protezione. Tra loro, in particolare donne e ragazze rischiano la tratta di esseri umani e la violenza sessuale e di genere.

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