K metro 0 – Jeddah – Anche quest’anno il Red Sea Film Festival, arrivato alla quarta edizione, ha intrecciato i suoi premi finali con l’attualità. La Siria, il Libano, Israele, Gaza, l’Iran sono a meno di due ore di volo da questa città sul Mar Rosso – Jeddah è la seconda città dell’Arabia Saudita, la
K metro 0 – Jeddah – Anche quest’anno il Red Sea Film Festival, arrivato alla quarta edizione, ha intrecciato i suoi premi finali con l’attualità. La Siria, il Libano, Israele, Gaza, l’Iran sono a meno di due ore di volo da questa città sul Mar Rosso – Jeddah è la seconda città dell’Arabia Saudita, la porta della Mecca e di Medina – e l’eco potente di quello che sta succedendo in Medio Oriente arriva anche qui, in un clima che sembra irreale tra serate di gala, attori e registi sul red carpet, divi di Hollywood, fotografi e sorrisi. Ma che non perde il contatto con i fatti. E anche il premio più prestigioso assegnato ieri a conclusione del festival – il Golden Yusr – è andato a un film tunisino che racconta la storia drammatica di due fratelli pastori che vengono attaccati da un gruppo jiadista. Una conferma del valore del cinema tunisino che anche l’anno scorso vinse un premio con il film “Le quattro sorelle” (delle quali, appunto, due si erano arruolate nell’Isis), ma soprattutto la conferma di quanto lo sguardo del cinema, a questa latitudine, sia puntato sul mondo che ribolle attorno.
“Red Path”, del regista tunisino Lotfi Achour, parte da una storia vera: due giovani pastori sono attaccati da una banda jihadista, uno di loro viene ucciso e l’altro è costretto a portare nel villaggio la testa tagliata del suo amico perché sia da monito per tutta la comunità. Ma nelle otto giornate del Festival, che si era aperto il 5 dicembre, sono stati presentati molti altri film che hanno come protagonista la storia recente. Tre, almeno, sono da segnalare, sperando che trovino una casa di distribuzione che li proietti anche nelle sale italiane. “Sima’s song” ci porta in Afghanistan al tempo del regime sostenuto da Mosca che fu rovesciato dai talebani – allora armati dagli Usa – nell’ormai lontano febbraio del 1989. Il passaggio da una realtà dittatoriale (l’URSS aveva invaso il Paese dieci anni prima per sostenere il regime di Babrak Karmal), comunque fondata sul modello del socialismo sovietico dove almeno c’era la parità dei diritti e le donne non erano obbligate al burqa e andavano a scuola, rimpiazzata da un’altra dittatura fondata sulle regole tribali, investe in pieno le due giovani. Amiche dall’infanzia, ma divise dagli ideali politici. Sima è una sognatrice che suona il rebab, tipico strumento afghano a metà tra una viola e una piccola arpa, la sua amica è diventata rappresentante giovanile delle donne del regime filo sovietico.
Attraverso le avventure e le disavventure personali delle due ragazze – che resteranno comunque sempre amiche – il film racconta un momento storico forse dimenticato, ma che spiega molte cose sulla società afghana che ora è ripiombata sotto i talebani dopo il ritiro degli Usa e degli alleati Nato, italiani compresi. Della società saudita parla invece “Saify”, film della casa produttrice più impegnata del Paese – Telfaz11 – che ha già realizzato pellicole provocatorie come “Mandoub” (che parla di uno spacciatore dei vietatissimi alcolici) e “Naga” (che racconta la storia di una ragazza che si droga nel deserto). Questa volta l’obiettivo di una satira ironica, ma molto precisa e forte, è il clero ultraconservatore che, tra l’altro, nel 1983, impose in Arabia Saudita anche la chiusura delle sale cinematografiche riaperte soltanto sei anni fa nel quadro della politica riformatrice del principe ereditario Mohammed Bin Salman che, con la sua “Vision 2030”, vuole accelerare la modernizzazione del Paese.
“Saify” – anche questa volta il titolo del film è il nome del protagonista della storia – mette al centro della critica i sermoni proibiti di certi Imam che venivano venduti di nascosto, registrati su audiocassette, verso la fine degli Anni 90, e aumentavano la popolarità dei predicatori più radicali, come Salman al-Odah noto per sermoni come “Came for Jihad”, o “The Industry of Death”. Saify, nel suo negozietto polveroso trova una cassetta del predicatore filantropo Sheik Assad (nome di fantasia) che non contiene però un sermone, ma una imbarazzante conversazione con il suo assistente dalla quale emerge il vero volto di affarista senza scrupoli del predicatore. Saifiy, che è pieno di debiti e chiede soldi anche alla ex moglie, crede di avere finalmente avuto il suo colpo di fortuna e prova a ricattare predicatore e assistente. Non ci riuscirà, ma avrà lo stesso una rivincita nella vita rivelando a tutti le malefatte del predicatore e del suo socio. Il terzo film che affronta l’attualità è iraniano. Titolo “6 Am”: è l’orario di partenza di un volo da Teheran che dovrebbe portare una neo laureata in Canada per una specializzazione. Gli amici della giovane organizzano una festa a sorpresa per salutarla. Ma fanno troppo rumore e un vicino chiama la polizia.
La festa si trasforma così in tragedia con una retata che porta tutti al commissariato. Tutti meno la protagonista che riesce a nascondersi. Peggiorando, però, la sua situazione perché la polizia sigilla e incatena la porta dell’appartamento chiudendola dentro. Seguiranno altre sorprese con un finale inaspettato. È un film che affronta il tema della gioventù iraniana che non ha certo simpatia per il regime degli ayatollah e la polizia che lo rappresenta. Ma che non spinge la critica oltre I confini del consentito. Anche perché, in fondo, tutto nasce da un equivoco e la polizia iraniana, alla fine, somiglia più a quella di New York che a quella di Teheran. Il tema comunque non è banale come non è banale il film.
Jomana Al-Rashid, la presidente del Red Sea International Film Festival, ha potuto ben dire che la rassegna saudita “rappresenta un terremoto nel panorama del cinema” e accanto ai film internazionali – molti americani e anche l’applauditissimo “Napoli-New York” di Gabriele Salvatores proiettato fuori concorso – “presenta le vibranti novità del cinema del mondo arabo, dell’Asia e dell’Africa”. La missione del festival di Jeddah, ha concluso Jomana Al-Rashid, “è quella di dare un palcoscenico internazionale a voci per lungo tempo sottovalutate e dimostrare che da ogni angolo del mondo possono emergere storie che vanno raccontate e che vanno ascoltate”.