K metro 0 – Teheran – Seggi aperti per le presidenziali in Iran con tutti gli occhi puntati sul dato chiave dell’affluenza, mentre cresce la consapevolezza in tutti i candidati accreditati di chance di vittoria che un negoziato con gli Usa sulle sanzioni è ormai ineluttabile. Le elezioni in Iran rappresentano l’ennesima occasione per un Paese che dalla
K metro 0 – Teheran – Seggi aperti per le presidenziali in Iran con tutti gli occhi puntati sul dato chiave dell’affluenza, mentre cresce la consapevolezza in tutti i candidati accreditati di chance di vittoria che un negoziato con gli Usa sulle sanzioni è ormai ineluttabile. Le elezioni in Iran rappresentano l’ennesima occasione per un Paese che dalla rivoluzione del 1979 ha seguito un percorso sempre accidentato, tra sanzioni ed isolamento internazionale. E anche in queste consultazioni – convocate con un anno di anticipo – la Repubblica islamica non ha tradito le attese.
Solo poco più di un mese fa l’allora presidente Ebrahim Raisi è morto in uno schianto a bordo di un elicottero che le autorità hanno rapidamente archiviato come un incidente. A metà aprile, in risposta al bombardamento del suo consolato a Damasco, l’Iran ha lanciato un attacco diretto, ‘telefonato’ quanto si vuole ma senza precedenti, contro Israele. In un contesto del genere, concordano esperti e osservatori, per l’establishment appare vitale trovare nuova legittimità attraverso un’alta affluenza, tasto su cui come consuetudine insiste la Guida Suprema. Non è un caso che, contrariamente a quelle del 2021 (stravinte da Raisi senza praticamente avversari) quelle che si tengono oggi non sembrano elezioni dall’esito già deciso. “Non blindate” le definisce in un’intervista all’Adnkronos Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies (Igs).
Malgrado anche stavolta la mannaia del Consiglio dei Guardiani si sia abbattuta su decine di aspiranti candidati, facendo vittime illustri come l’ex speaker del Parlamento Ali Larijani o l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, al voto è rappresentato tutto il panorama politico iraniano. Tra i quattro candidati rimasti in lizza ci sono esponenti della corrente principalista o conservatrice come l’attuale speaker del Majlis, Mohammed Baqer Qalibaf, dei ‘paydari’ ovvero degli ultraconservatori come l’ex capo negoziatore sul nucleare, Saeed Jalili, e – novità rispetto alla scorsa elezione – anche del campo riformista come Masoud Pezeshkian. Tutti i sondaggi indicano un ballottaggio inevitabile, con la variabile affluenza che viene ritenuta decisiva per capire chi la spunterà.
Le stime di voto della vigilia indicano che tra il 50 ed il 55% dell’elettorato si recherà ai seggi. Con questi dati “ci sarà un ballottaggio”, ritiene Raffaele Mauriello, docente dell’Università ‘Allameh Tabatabai’ di Teheran, secondo cui se al secondo turno l’affluenza dovesse crescere ancora e raggiungere il 60%, una vittoria del candidato riformista – che potrebbe raccogliere anche il consenso del cosiddetto elettorato anti-sistema – non sarebbe un’utopia.
Da Teheran, dove insegna, Mauriello nota un interesse “sicuramente maggiore” della popolazione verso le elezioni, “non c’è apatia” come in quelle del 2021, “ma rimane l’incognita su quanta gente andrà a votare”. Bisognerà valutare se tra i riformisti si affermerà la volontà di boicottarle e se peseranno la crisi economica e “le conseguenze delle proteste per la morte di Mahsa Amini”. Proprio sulla crisi pone l’accento Afifeh Abedi, ricercatrice presso il Center for Strategic Research (Csr) di Teheran, uno dei principali think tank della Repubblica islamica, secondo cui gli iraniani “sono alla ricerca di un candidato presidenziale che ponga fine all’attuale divario politico e sociale del Paese e abbia una maggiore autorità manageriale” rispetto a Raisi, il cui operato a detta di molti analisti è stato deludente. In un’intervista a Adnkronos, Abedi ritiene che anche i temi sociali siano tra le “priorità” degli elettori, a partire dalla questione dell’hijab, oggetto di dibattito in campagna elettorale. L’unico aspetto su cui concordano tutti i candidati, e sul quale anche Khamenei non è riluttante, è che il problema dell’economia sia irrisolvibile senza un compromesso con l’Occidente. Questo è stato l’argomento centrale di tutti e quattro i dibattiti che hanno avuto il tema delle sanzioni proprio come trade union.
Per Pedde l’elemento di novità delle elezioni è la presenza di candidati “appetibili” anche a quell’elettorato ritenuto dall’Occidente disilluso ma che sostanzialmente è ormai scollegato completamente da un punto di vista ideologico e pratico dal sistema di governo della Repubblica islamica. Come appunto Pezeshkian, che sta crescendo molto nei sondaggi e che sembra avere anche possibilità di vittoria. Al punto da far supporre una coalizione tra paydari e principalisti al secondo turno per scongiurare un trionfo riformista. Dopo una performance deludente al primo dibattito, nei successivi tre Pezeshkian è stato “più brillante soprattutto su politica estera e sociale”, afferma il direttore dell’Igs, secondo cui sull’hype intorno alla candidatura dell’ex ministro della Salute “ha pesato molto l’endorsement dell’ex ministro degli Esteri Zarif che ha allarmato tremendamente i conservatori” e dell’ex presidente, Hassan Rohani. Non a caso sul quotidiano d’area Kayhan, il direttore Hossein Shariatmadari ha fatto appello esplicito agli altri candidati a ritirarsi e unire le forze per sostenere Qalibaf.
Proprio l’ex sindaco di Teheran ha attirato l’attenzione di Pedde per come si è mosso durante la campagna elettorale. Sostenendo la necessità di “rinegoziare con gli Stati Uniti” dopo il ritiro unilaterale dal Jcpoa deciso da Donald Trump nel 2018, “ha intercettato quella parte di voto che anche in ambito riformista e pragmatico vede nella soluzione dei problemi con l’Occidente la principale leva per risolvere la crisi economica”. Per l’esperto, con un’affluenza del 50-55% nessuno dei candidati vincerà al primo turno e si andrà ad un ballottaggio Pezeshkian-Qalibaf, mentre con un dato più basso crescerebbero le possibilità di Jalili, forte di un elettorato di riferimento sicuramente minoritario, ma compatto e che soprattutto partecipa convintamente al voto. Al contrario, un’affluenza molto alta oltre il 60% premierebbe Pezeshkian. Ma, secondo Pedde, al momento è Qalibaf il favorito. In caso di secondo turno l’attuale speaker potrebbe intercettare il voto ultraconservatore e al quinto tentativo potrebbe finalmente diventare presidente. L’elezione di Qalibaf, sottolinea Pedde, sarebbe propedeutica anche a un passaggio chiave rappresentato dal post-Khamenei che si avvicina sempre di più con l’avanzare dell’età dell’attuale Guida.
“Khamenei non ha grande interesse a vedere Jalili al governo, per lui sarebbe una ripetizione dell’esperienza Ahmadinejad che è stata fallimentare, dal momento che i paydari hanno al loro interno una forte componente radicale ostile alla Guida – spiega – ritengo invece i principalisti gli unici in grado di gestire la transizione durante la delicata fase che si aprirà dopo la morte di Khamenei, quando con molta probabilità con un emendamento costituzionale si ridurranno i poteri del Rahbar e, in questo senso, Qalibaf è il candidato ideale”.
Anche Mauriello ritiene probabile, data per assodata un’affluenza di poco sopra al 50%, una sfida al secondo turno tra Qalibaf e Pezeshkian. Il candidato riformista, sintetizza, non ha messo in discussione le linee rosse della Repubblica islamica, come la questione della polizia morale e dei poteri della Guida, “non si è messo a fare populismo” e non ha cercato di invogliare con tematiche attrattive, come il velo, la cosiddetta Gen Z che ha guidato la protesta per Mahsa e che finora non hai mai votato. Si tratta di potenziali elettori che “cercano un cambio sostanziale” e che “con onestà” Pezeshkian non ha cercato di ‘conquistare’ con promesse poi difficili da mantenere. Invece “con intelligenza” si è rivolto alla maggioranza della popolazione che ha tra i 35 ed i 45 anni senza cercare di “forzare lo scontro politico” a differenza di Mostafa Pourmohammadi, l’unico ‘rohani’ (parola equivalente a ulema in arabo) che indossa il turbante e che ha impostato una campagna più aggressiva.
Il professore non è invece sorpreso della chiara indicazione di Qalibaf sulla sua disponibilità a negoziare con gli Usa, se eletto. L’ex sindaco di Teheran “in realtà è un pragmatico, un tecnocrate che ha una posizione meno oltranzista anche sul velo. Il fatto che voglia fare l’accordo con gli Stati Uniti non mi sorprende, pure Raisi voleva provarci, anche Jalili vuole arrivarci ma da una posizione di forza – conclude – Qalibaf invece è un politico meno ideologico e quindi che cerca il consenso”.