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Intelligenza Artificiale, il lavoro invisibile per addestrarla

Intelligenza Artificiale, il lavoro invisibile per addestrarla

K metro 0 – Roma – Sotto-pagato, sotto-tutelato e svolto in paesi sotto-sviluppati o in via di sviluppo, dove uomini e donne invisibili analizzano quantità colossali di dati per arricchire l’IA. E’ il lavoro nascosto dietro il boom dell’IA (l’Intelligenza Artificiale). Un lavoro in outsourcing  appaltato all’esterno in paesi come  Kenya, Uganda, India. Spesso malpagato,

K metro 0 – Roma – Sotto-pagato, sotto-tutelato e svolto in paesi sotto-sviluppati o in via di sviluppo, dove uomini e donne invisibili analizzano quantità colossali di dati per arricchire l’IA.

E’ il lavoro nascosto dietro il boom dell’IA (l’Intelligenza Artificiale). Un lavoro in outsourcing  appaltato all’esterno in paesi come  Kenya, Uganda, India. Spesso malpagato, precario e nell’ombra, per meno di 2 dollari l’ora netti.

Miliardi di utili in Occidente, pochi spiccioli in Africa, ha scritto Billy Perrigo, autore di un’inchiesta sull’argomento per il settimanale americano “Time”.  

La creazione di algoritmi come ChatGPT o Midjourney richiede quantità colossali di dati, analizzati da esseri umani. Dietro i grandi discorsi di rivoluzione tecnica si nasconde una massa di lavoratori invisibili. Centinaia di milioni sparsi ovunque dal Venezuela al Madagascar, dai campi profughi in Libano alle carceri finlandesi. Piccole mani che costruiscono il futuro clic dopo clic, pixel dopo pixel. Per posizionare ad es. i contorni che delimitano un segnale stradale su un’immagine. Poi un veicolo. Poi un cespuglio. Un “compito” che in genere, Eduardo, nelle Filippine, svolge in un’ora circa e  ripete instancabilmente, otto ore al giorno, sei giorni alla settimana. Immagini poi utilizzate per addestrare algoritmi di analisi video, per auto autonome o sorveglianza algoritmica.

Per creare le IA che hanno stupito il mondo negli ultimi mesi, come ChatGPT o Midjourney, spiega Luca Chagnon di Francinfo,  servono miliardi di esempi. Dati che spesso devono essere “annotati”, cioè accompagnati da commenti, affinché la macchina riproduca le categorie dell’analisi umana: facendo capire che “questo mucchio di pixel è un bambino”, che “questa frase è falsa” o che “questo elemento evoca comportamenti illegali e non deve essere riprodotto”.

La formazione non si ferma mai. “E’ un po’ come per gli atleti, che vanno allenati e controllati  costantemente”, dice Antonio Casilli docente all’Institut polytechnique de Paris. A volte bisogna isolare un volto in una foto, dire se un’immagine deve apparire nella sezione Ricordi di Google Foto, se un testo è reale o meno, creare domande/risposte di cultura generale… spiega un imprenditore africano.

Le aziende assumono in alcuni casi annotatori interni, in particolare per compiti che richiedono competenze specifiche. Ma per molte, la soluzione più redditizia è spesso l’outsourcing a imprese di altri paesi che assumono annotatori locali, come Sama, o a piattaforme come Remotasks, Appen o Toloka, che subappaltano le attività assegnate a lavoratori indipendenti pagati a cottimo. Spesso reclutati da paesi a basso reddito e geopoliticamente instabili, dove questo tipo di lavoro, sebbene non fisso, “è almeno qualcosa”, per chi non ha niente.

“I compiti di categorizzazione affidati da Remotasks in Venezuela possono richiedere solo pochi minuti, pagati 11 centesimi di dollaro, mentre altri, molto più complessi (pagati 10 dollari) possono impegnare per otto ore o più, come l’annotazione di video o di dati Lidar (essenziali per i veicoli a guida autonoma e per la tecnologia geospaziale).

Ma tutto dipende dal paese e dalla difficoltà del compito. Un relativo “eldorado” che attrae a volte anche i minorenni che mentono sulla loro età per aderire a queste piattaforme di micro-task, racconta il sito specializzato Wired.

Ma queste speranze non bastano a farne un lavoro da sogno. Anche se può essere retribuito decentemente  rispetto al mercato locale, i lavoratori dei clic spesso lamentano la differenza di trattamento tra i paesi. “Le aziende approfittano della nostra povertà”, dice Andry, annotatore in Madagascar, per il quale “qualcun altro  in India o in Marocco sarà pagato meglio di noi”.

Per guadagnare cifre decenti, i liberi professionisti devono essere disponibili a tutte le ore del giorno e della notte e adattarsi a progetti di varia durata. Su Appen, ad es., i compiti arrivano all’ora americana, quindi intorno alle 21 in Francia.

Quella che ad alcuni appare una “opportunità professionale”, può trasformarsi in una trappola. In Cina, le istituzioni promettono ai loro studenti una formazione in “IA” o “Big data”, ma li costringono ad annotare immagini tutto il giorno per un salario inferiore al minimo legale.

Chi trae vantaggio da questo lavoro spesso ingrato, a volte al limite dell’etica? È difficile dirlo: il settore è avvolto da uno spesso velo di segretezza e gli annotatori indipendenti raramente sanno a chi sono destinati i dati che elaborano.

“Se sapessero che stanno lavorando per un’azienda da centinaia di milioni di dollari come OpenAI, non accetterebbero stipendi così bassi” dice Mophat Okinyi, ex analista della qualità presso Sama, azienda di outsourcing di annotazioni dati.

Ma è possibile organizzare questo lavoro in modo da soddisfare tutti, giganti della tecnologia e lavoratori dei clic?  Okinyi  ha unito le forze con 150 lavoratori del settore per creare la Kenya Content Moderators Union, che dovrebbe ottenere la licenza “entro due mesi”, e ha co-fondato la ONG Techworker Community Africa per sostenere le migliori pratiche. “L’intelligenza artificiale non può essere etica se viene addestrata in modo immorale, sfruttando persone in difficoltà economiche e su dati rubati”, afferma.

“Molti non sanno che dietro l’intelligenza artificiale c’è un essere umano”, dice un annotatore di dati.

E’ dunque tempo, sostiene Antonio Casilli, di abbandonare l’idea che  l’intelligenza artificiale, sia solo una prodezza di ingegneri o imprenditori. “Siamo tutti in un certo senso i produttori di queste IA, perché sono i nostri dati che vengono utilizzati per addestrarle, ma noi non siamo riconosciuti come tali. Finché continuiamo a pensare che l’AI sia solo il business di Sam Altman, avremo un problema”.

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