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Giancarla Frare: impronte della memoria in 50 dipinti su carta

Giancarla Frare: impronte della memoria in 50 dipinti su carta

K metro 0 – Roma – Il potente silenzio delle pietre, resti archeologici, fossili dei popoli, come le chiamava Goethe. Rovine, non macerie. Muta testimonianza di un passato storico, ma anche individuale. Come nel caso di Giancarla Frare, artista contemporanea, che alle pietre del Castello di Apice (vicino a  Benevento) dove ha vissuto parte della

K metro 0 – Roma – Il potente silenzio delle pietre, resti archeologici, fossili dei popoli, come le chiamava Goethe. Rovine, non macerie. Muta testimonianza di un passato storico, ma anche individuale. Come nel caso di Giancarla Frare, artista contemporanea, che alle pietre del Castello di Apice (vicino a  Benevento) dove ha vissuto parte della sua prima infanzia (da quando aveva appena un anno, fino ai 6 anni) ritorna con la memoria.  

Un “teatro lapidario” caduto in rovina dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980. Un labirinto di pietra, che è al centro della sua ricerca pittorica  organizzata, per cicli, attorno al tema della memoria. 

Cicli riassunti nella sua mostra antologica, a cura di Antonella Renzitti (significativamente intitolata “Abitare la distanza”) allestita al Casino dei principi di Villa Torlonia, dove sono esposte, fino al 25 maggio,  50 opere su carta, corredate da due video.

Artista dalla forte personalità, di origine veneta ma formatasi all’Accademia di Belle Arti di Napoli (dove studia scenografia, con interessi anche nella scultura, nella fotografia e nell’incisione) dalla sua formazione poliedrica trae una straordinaria capacità di visione sintetica (“pittura densa eppure scabra, raffinata ed essenziale […], scarnificata” scrive Loredana Rea nel catalogo della mostra “Frare: Ut Sculptura” dedicata al suo “Teatro lapidario” (Arpino, 12 novembre 2016-5 marzo 2017).

 

Pietre scarne, mute, colori e sfondi bianchi neri e grigi in svariate sfumature, che “concedono appena la convivenza di qualche tonalità della terra e del cielo, visioni interiori, paesaggi psichici dove protagonista (scrive Daniela Fonti nel testo in catalogo della mostra di Arpino),   è la natura primigenia del mondo, una lithos che non è pietra all’intonso stato minerale ma Lapis in veduta angolare e spigolosa, tagliata dalla mano umana”.

Pietre antiche, corrose dal tempo, archetipo di tutte le pietre raffigurate, fotografate o evocate dall’artista nei cicli tematici della sua quarantennale carriera artistica.  Desolati territori di pietra impressi con una pittura velocissima su carta, con innesti  di elementi scultorei,   scelti tra un  gran numero di immagini fotografiche in bianco e nero scattate  con “grande attenzione ai contrasti chiaroscurati accentuati da ombre evidenti” (Antonella Renzitti). Immagini  catturate nel corso di lunghe battute fotografiche nel nord Europa e in Italia,  in particolare a Napoli (dove frequenta negli anni ’70 l’Accademia di Belle Arti) e a Roma (dove si trasferisce a vivere nel 1986)  innestate all’interno di composizioni pittoriche minimali, in rapporto di tensione dialettica tra linguaggio della fotografia e segno pittorico.

La pittura, insomma, come scavo archeologico, nel tempo interiore della memoria. “La via di accesso al presente ha necessariamente la forma di un’archeologia”: recita il titolo del brillante saggio introduttivo di Antonella Renzitti al catalogo della mostra.

Altra componente della creatività di Giancarla Frare è la poesia. Poetessa lei stessa, ispirata dalle poesie di Georg Trackl, Hugo von Hoffmannsthal e Paul Celan, ha creato libri d’artista unendo sullo stesso foglio una composizione grafica ad alcuni suoi versi. Una di queste è esposta nella sua mostra, insieme ad un’altra: una pagina di “Todesfuge” di Paul Celan (elaborazione poetica della Shoah di un poeta tra i  più profondi e complessi de Novecento, che per tutta la vita,  si confrontò con la “sentenza” di Theodor W. Adorno sull’impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz lottando fino allo stremo per affermare il riconoscimento della propria opera, con cui intendeva restituire voce a chi voce non aveva più) in cui i versi del poeta sono da lei scritti a mano e accostati a innesti fotografici di elementi litici e segni a inchiostro.

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