K metro 0 – Jeddah – Tra i film del Festival del Mar Rosso in corso a Jeddah, molti sono quelli che affrontano storie di attualità. Descrivono i cambiamenti sociali, le crisi, anche i conflitti dei Paesi del Medio Oriente. E offrono un’immagine lontana dagli stereotipi ancora radicati nell’immaginario collettivo occidentale. Del resto il cinema
K metro 0 – Jeddah – Tra i film del Festival del Mar Rosso in corso a Jeddah, molti sono quelli che affrontano storie di attualità. Descrivono i cambiamenti sociali, le crisi, anche i conflitti dei Paesi del Medio Oriente. E offrono un’immagine lontana dagli stereotipi ancora radicati nell’immaginario collettivo occidentale. Del resto il cinema racconta sempre la realtà che continuamente si trasforma. Il neorealismo italiano insegna. E’ un termometro dei movimenti in atto. Con una doppia scala: misura quello che succede, ma anche quello che ormai si può proporre in un’occasione ufficiale com’è la vetrina di una rassegna cinematografica internazionale che, magari, gli assegnerà anche un premio. Per sapere se il “Red Sea International Film Festival” consacrerà tra i vincitori anche uno dei film di questo filone, che potremmo definire “impegnato”, bisognerà aspettare la serata conclusiva del 7 dicembre. Ma, tra quelle già proiettate, almeno tre pellicole sono da segnalare: “Four Daughter”, “Inshallah a Boy” e “The Teacher”.
“Four Daughter” (il titolo originale in arabo è “Le figlie di Olfa”) è un film tunisino che racconta la storia vera di quattro ragazze – due adolescenti e due giovanissime – e della loro madre che finiscono nel vortice della guerra scatenata dall’Isis, l’esercito dell’autoproclamato Stato islamico, tra Libia, Siria e Nord dell’Iraq. Le due sorelle più grandi, Rahma e Gofrane, entrano nelle milizie dell’Isis, si sposano con due combattenti, Rahma ha anche una bambina. Vengono catturate e processate in Libia. Condannate a 16 anni sono ancora oggi in prigione. La regista Kaouther Ben Hania racconta questa vicenda – che nel 2016 fece molto scalpore in Tunisia con dibattiti in tv e articoli sui giornali – con un espediente scenico originale: a interpretare le due sorelle più piccole sono, realmente, Eya e Tayssir Hamrouni, mentre Rahma e Gofrane sono interpretate da due attrici. Anche la madre, Olfa, è interpretata da un’attrice – Hind Sabri, molto famosa in Tunisia – nelle scene più impegnative, ma in buona parte del film è la vera Olfa Hamrouni a interpretare se stessa.
Così sullo schermo c’è una specie di continuo scambio tra le due Olfa e le quattro sorelle – le due vere e le due attrici – che si confidano ricordi, consigli, impressioni, creando un effetto particolare. E c’è un solo attore uomo (Majd Mastoura) che interpreta tre personaggi: il marito (dal quale Olfa divorzia), un suo compagno e un ufficiale di polizia. Non è un caso. E’ una scelta precisa perché la prima rivolta di Olfa è contro la figura maschile di una società patriarcale che pretende e non concede. E in fondo le tensioni sofferte da Olfa ricadono sulle figlie e innescano anche la fuga delle due più grandi che “finiscono nel lato oscuro della protesta”, come dice la regista Kaouther Ben Hania. Dalla parte sbagliata della storia, insomma. Alla proiezione del film c’erano tutti gli interpreti: personaggi reali e attori. Tayssir, che intanto è diventata anche lei un’adolescente, parlando di che cosa spera adesso, ha detto: “C’è solo da aspettare che le nostre sorelle siano liberate”.
“Inshallah a Boy”, film giordano del regista Amjad Al Rashid, porta sullo schermo uno degli aspetti più concreti della disparità tra donne e uomini. L’eredità riservata ai soli maschi. Se ne rende conto a sue spese Nawal che ha una figlia femmina, Nora, e che, alla morte del marito, vede irrompere il cognato che rivendica la casa in cui le due donne vivono perché lui, come fratello del defunto, ha il diritto di ereditarla e di toglierla materialmente a Nawal e a Nora che sarebbero obbligate a lasciarla. A meno che… A meno che non entri in gioco un possibile erede maschio. Ed ecco l’estrema difesa della vedova. Si finge incinta: non sa il sesso del (presunto) nascituro, ma il suo augurio è che sia, Inshallah (se Dio vorrà), un bambino. Questo stratagemma non può durare a lungo, ma intanto serve a Nawal per ritardare la perdita della casa e per mettere in atto tutte le mosse legali (scarse, in realtà) per bloccare il cognato. E permette al film di trasformarsi in una denuncia del potere patriarcale e, più in generale, maschilista di società che applicano rigidamente la legge coranica.
Più problematico “The Teacher”, l’unico film palestinese presentato al “Red Sea International Film Festival”. La regista Farah Nabulsi , una palestinese che vive a Londra, ha scritto e diretto una storia ispirata a una vicenda reale e l’ha girata, non senza difficoltà, in un villaggio vicino a Ramallah, la capitale del Territorio dell’Autorità palestinese, in Cisgiordania. Tutto ruota attorno alla trattativa per lo scambio tra un giovane soldato israeliano, catturato da una milizia, e un gruppo di prigionieri palestinesi. Alla fine saranno mille e lo scambio si farà anche con l’intervento dei genitori americani del soldato arrivati in Israele per partecipare al negoziato. Ma prima di questo, che potrebbe sembrare un lieto fine, ci saranno molte vicende tragiche con due morti – uno studente palestinese e un colono israeliano – e the teacher, il professore che dà il titolo al film, interpretato da Saleh Bakri, sarà al tempo stesso vittima e carnefice in una storia che Farah Nabulsi racconta cercando di rimanere neutrale nel dipingere una realtà che sembra, però, inesorabilmente condannata a rimanere senza speranze di soluzione pacifica. Il film è stato girato molto prima del 7 ottobre scorso. Ma la sua attualità è evidente.