K metro 0 – Roma – A due passi dal cielo. Alla ricerca di un tempo non ancora (del tutto) perduto. Sulle tracce di una civiltà contemplativa favorita dall’immensità dei suoi paesaggi. “Il Tibet è sempre stato per me un grande mistero e continua a esercitare una profonda attrazione”, scrive Jacques Borgetto. Fotografo francese d’origini
K metro 0 – Roma – A due passi dal cielo. Alla ricerca di un tempo non ancora (del tutto) perduto. Sulle tracce di una civiltà contemplativa favorita dall’immensità dei suoi paesaggi.
“Il Tibet è sempre stato per me un grande mistero e continua a esercitare una profonda attrazione”, scrive Jacques Borgetto. Fotografo francese d’origini italiane, che vive e lavora a Parigi, a questo paese misterioso dedica una mostra (Così vicino al cielo. Il Tibet, titolo anche del suo libro, Editions Filigranes) visitabile fino al 3 giugno nello spazio 10b Photography di Roma (Via San Lorenzo da Brindisi 10b a Garbatella), che ha ospitato alcuni del nomi chiave della fotografia internazionale (da Letizia Battaglia a Stanley Greene, da Vivian Meier a Eugene Richards e René Burri).
Uno spazio fondato da Francesco Zizola, il caso vuole… nel 2007: proprio l’anno in cui, con la sua inseparabile Rolleiflex, Borgetto ha cominciato a viaggiare in Tibet, ritornandoci molte volte e in tutte le stagioni.
Sette viaggi, della durata di 5-6 settimane, durante i quali ha condiviso la vita quotidiana con i monaci e i nomadi degli altipiani, in un paese ai confini del mondo. Difficile da penetrare. Segnato da divieti. Spesso solcato da sentieri segnalati e controllati.
In questo territorio difficile, dove le persone vivono in modo semplice, senza lusso, ma con rispetto e riverenza l’una per l’altra e per l’ambiente, Borgetto, attento osservatore, si è addentrato con lo sguardo educato da buone letture. A partire dal Viaggio di una parigina a Lhasa di Alexandra David Neél, la prima donna europea a esplorare il Tibet, nel 1924, allora sconosciuto e interdetto agli stranieri, entrando clandestinamente dalla frontiera indiana e raggiungendo Lahsa, insieme a un giovane monaco, travestiti da pellegrini mendicanti.
Sette volte Borgetto ha raggiunto il Tibet, colonizzato, asservito, sommerso dalla massa di cinesi che lo hanno occupato e dai turisti in cerca di suggestioni esotiche che invadono i grandi monasteri come Labrang e scattano foto di cerimonie religiose ancestrali “senza capirne il significato simbolico”.
Ma quello ritratto da Borgetto è un Tibet off the beaten track: lungo percorsi poco battuti, lontani dal turismo di massa. Le sue foto raccontano “la serenità, il quotidiano e la spiritualità, le tradizioni persistenti e la modernità che si avvicina”, osserva Laura Serani, curatrice della mostra.
Ma per trovare la serenità “bisogna scalare le montagne, andare sempre più in alto, dove la vita è dura, e la natura ostile, in quei piccoli monasteri che a volte sono accessibili, anche se sorvegliati dalla polizia”, scrive Borgetto, che nelle sue foto, al colore preferisce il bianco e nero, che meglio esprime la spiritualità del Tibet. E la nostalgia di un mondo che rischia di svanire.
Ad ogni viaggio, Borgetto ha notato molti cambiamenti nel territorio: strade e autostrade spezzettano sempre di più il paesaggio degli altipiani. Senza vantaggi per i tibetani, poiché “non ci sono infrastrutture per collegare le piccole città e gli accampamenti in cui vivono”.
La colonizzazione cinese, “sempre più evidente nella città santa di Lhasa” tende a distruggere l’habitat tradizionale tibetano, ”rimpiazzato dalla costruzione di edifici per cinesi” e favorisce la sedentarizzazione dei nomadi degli altipiani con la costruzione di nuove città.
Ma la natura, smisurata, torna a riprendere il sopravvento. Ovunque si volga lo sguardo, sì è più vicini al cielo che alla terra. E il tempo, scandito dalla meditazione e dalla contemplazione, sembra dilatato.
Pellegrini e monaci continuano a recarsi ai templi a piedi su strade desolate e passi d’alta montagna, inginocchiandosi ogni pochi metri per mormorare le loro preghiere. La fede e il buddismo stanno nei geni del Tibet e questo si avverte ovunque.
Per più di mille anni il buddismo è stato il fondamento di questo paese singolare: unico caso nella storia dell’umanità in cui monaci, monache ed eremiti costituivano un quinto della popolazione.
“Società disarmata”, il Tibet, come ha spiegato Georges Bataille, scelse di destinare il suo pur misero eccedente ai monaci, che avrebbero assolto al compito di drenare con il loro parassitismo energie minacciose per la pace interna, dato che una eventuale espansione del Tibet era impedita, oltre che dalla conformazione del suo territorio, da paesi militarmente ed economicamente più forti (Cina e India inglese).
L’immensità del cielo, nelle immagini di Borgetto, assurge a simbolo della resilienza della cultura buddista. E della capacità del Tibet, pacifico e non violento, di resistere alla violenza dell’omologazione e della globalizzazione. “Quando un popolo come quello tibetano è minacciato di genocidio culturale, qualsiasi manifestazione umana, artistica o spirituale da esso emanata assume un valore simbolico. Il libro di Jacques Borgetto è una preziosa testimonianza di questa feroce volontà di sopravvivenza”, scrive nella sua prefazione Matthieu Ricard, monaco francese di scuola tibetana, giornalista, scienziato (figlio del noto filosofo Jean- François Revel) e anch’egli fotografo di persone e paesaggi del Tibet, del Buthan e del Nepal, dove trascorre molti mesi ogni anno.