K metro 0 – Kiev – A Chernobyl, in Ucraina, centinaia di tonnellate di uranio sono ancora sepolte sotto il vecchio reattore della centrale andata a fuoco nell’incidente del 1986, mentre un nuovo “sarcofago” di cemento impedisce ulteriori contaminazioni. La centrale (il cui ultimo reattore è stato chiuso dal governo nel 2000) dovrebbe essere totalmente smantellata
K metro 0 – Kiev – A Chernobyl, in Ucraina, centinaia di tonnellate di uranio sono ancora sepolte sotto il vecchio reattore della centrale andata a fuoco nell’incidente del 1986, mentre un nuovo “sarcofago” di cemento impedisce ulteriori contaminazioni. La centrale (il cui ultimo reattore è stato chiuso dal governo nel 2000) dovrebbe essere totalmente smantellata entro il 2065. Ma, a più di 35 anni dal peggior incidente nucleare della storia, l’ambiente circostante la vecchia centrale di era sovietica (poi conquistata dai russi a febbraio 2022, nei primi giorni della guerra) non finisce di suscitare l’attenzione dei ricercatori di gran parte del mondo, ponendo interrogativi che in parte mettono in crisi le certezze acquisite dalla scienza.
Già nel 2016, il docu-film “Il complotto di Chernobyl”, diretto e prodotto dal regista e sceneggiatore Chad Gracia (il titolo allude all’ipotesi su Chernobyl come incidente voluto “ad arte” dai nemici interni di Mikhail Gorbaciov, oppositori dell’allora promettente perestrojka), faceva fortemente riflettere. Mostrando che, a parte 158 persone che, nonostante i divieti governativi, continuavano a vivere nella cosiddetta “zona di esclusione”, nel raggio di soli 30 km dalla centrale (perlopiù anziani dal modesto tenore di vita, con poche possibilità di stabilirsi altrove), ad aver ripopolato la zona in 30 anni, con molte meno difficoltà, erano stati soprattutto gli animali (lupi grigi, cinghiali selvatici, volpi rosse, procioni): poco influenzati, almeno apparentemente dalla presenza di radiazioni. Questo anche se, già allora, gli scienziati sottolineavano l’indispensabilità di maggiori approfondimenti, per capire bene gli effetti della contaminazione radioattiva sulla fauna.
Oggi, informa l’AP, è il “miglior amico dell’uomo” a tenere banco a Chernobyl: dove i cani vagano tra edifici in rovina e abbandonati all’interno e intorno all’impianto chiuso, ma restano in qualche modo in grado di trovare cibo, riprodursi e sopravvivere. E molti scienziati sperano che lo studio di questi cani possa insegnare agli umani nuovi trucchi su come vivere anche negli ambienti più difficili e degradati.
Venerdì scorso, 3 marzo, un gruppo internazionale di ricercatori attivi appunto a Chernobyl ha pubblicato il primo di quella che sperano diverrà una serie di studi genetici su “Science Advances”, prestigiosa testata dell’American Association for the Advancement of Science: concernente 302 cani in libertà, che vivono in una “zona di esclusione” ufficialmente designata intorno al luogo del disastro. Gli studiosi hanno identificato popolazioni canine i cui diversi livelli di esposizione alle radiazioni potrebbero averle rese geneticamente distinte l’una dall’altra (con consistenti differenze anche tra un individuo e l’altro) e dagli altri cani in tutto il mondo. “Abbiamo avuto questa occasione d’oro” per gettare le basi per rispondere a una domanda cruciale: “Come sopravvivi in un ambiente ostile come questo per 15 generazioni?”, ha detto uno degli autori dello studio,
La genetista Elaine Ostrander del National Human Genome Research Institute, nato nel 1989, uno dei dipartimenti del National Institutes of Health di Bethesda (Maryland).
Il collega autore Tim Mousseau, professore di scienze biologiche alla South Carolina University, ha affermato, anzi, che i cani “forniscono uno strumento incredibile per esaminare gli impatti di questo tipo di ambiente” sui mammiferi in generale. La maggior parte dei cani che stanno studiando, dicono infatti tutti questi ricercatori, sembrano discendere da animali domestici che i residenti sono stati costretti a lasciare quando hanno evacuato l’area.
All’inizio, ha detto la Ostrander, si pensava che i cani potessero essersi mescolati così tanto nel tempo che sarebbero rimasti, in ultimo, più o meno gli analoghi ai loro progenitori. Ma attraverso lo studio del loro DNA, è stato possibile, invece, diversificarli, identificando i cani che vivono in aree ad alto, basso o medio livello di esposizione alle radiazioni. “E la cosa sorprendente” ha detto Ostrander sempre ad AP, “è che possiamo persino identificare le varie famiglie” di cani: circa 15 diverse. “Possiamo confrontarli e dire cosa è diverso, cosa è cambiato nel loro DNA, come è mutato, cosa si è evoluto, cosa ti aiuta, cosa ti ferisce a livello di DNA”. Gli scienziati affermano che la ricerca potrebbe avere ampie applicazioni: fornendo approfondimenti su come vari animali – non piu’ solo gli insetti, un tempo ritenuti gli unici possibili superstiti di disastri nucleari su vasta scala – e gli esseri umani possono vivere, ora e in futuro, in regioni del mondo sotto “continui attacchi ambientali”, e in ambienti ad alta presenza di radiazioni.