K metro 0 – La Paz – “Pamperizzata”: ovvero ridotta e degradata, trasformata in vaste piane di coltivazioni o pascoli, tipiche, appunto, della pampa argentina. Questo il pericolo che corre l’Amazzonia boliviana che occupa il 43% del territorio nazionale. Sorella “minore” (si fa per dire) della più grande Amazzonia, che per il 60% si trova
K metro 0 – La Paz – “Pamperizzata”: ovvero ridotta e degradata, trasformata in vaste piane di coltivazioni o pascoli, tipiche, appunto, della pampa argentina. Questo il pericolo che corre l’Amazzonia boliviana che occupa il 43% del territorio nazionale. Sorella “minore” (si fa per dire) della più grande Amazzonia, che per il 60% si trova in Brasile, sta diventando vittima di un modello agro-esportatore.
Insieme al Gran Chaco, una massa forestale di un milione di kilometri quadrati, tra Argentina (per il 62 per cento), Paraguay (25 per cento) e Bolivia (11 per cento), è il secondo bioma più grande del Sudamerica.
L’Amazzonia dell’Estado Federal de Bolivia, che coincide con l’estensione della foresta, comprende 88 province: 1.266.379 di abitanti, fra indigeni, contadini, coloni e di discendenza africana.
L’agro-export, cruciale per paesi avidi di valuta estera come la Bolivia, si scontra con un ecosistema indigeno, le sue specie, le sue etnie.
E sta devastando le foreste tropicali. Come si vede chiaramente dalle aerofotogrammetrie che mostrano il desolante spettacolo di vaste aree vuote accanto ad aree di fitta vegetazione.
Diversi prodotti esportati dalla Bolivia contribuiscono a estendere questi vuoti. Primo fra tutti, la carne bovina, che in questi ultimi anni viene stata esportata in Cina. Nel 2018, a causa di un grave episodio di peste suina, la Cina si è rivolta alla Bolivia.
La domanda internazionale ha avuto un impatto quasi immediato sugli ecosistemi: quando la Cina ha cominciato a importare carne bovina, sono scoppiati i terribili incendi nella foresta amazzonica del 2019. Bisognava “fare spazio” per soddisfare la domanda cinese e quindi convertire ettari di foresta in pascolo.
In Europa, l’Italia importa cuoio boliviano per la sua pelletteria. Francia e Germania acquistano legname, destinato alla fabbricazione di mobili.
L’Unione europea ha appena adottato misure per limitare il consumo di suolo dei prodotti importati che contribuiscono alla deforestazione o al degrado delle foreste tropicali.
Ma queste nuove misure, come le multe per il disboscamento illegale o gli incendi – le più basse di tutta l’America Latina: 20 centesimi di dollaro per ogni ettaro incendiato o disboscato illegalmente – avranno, in realtà, solo un impatto economico abbastanza limitato sulla Bolivia.
Potrebbero avere invece, secondo Marielle Cauthin, ricercatrice della Fondazione Solon di La Paz, un impatto politico.
“Se da questo precedente iniziamo a fare pressione sui governi, possiamo sperare che in futuro ci sia più regolamentazione interna”. E si possano imporre nuovi standard ai mercati.
Ma il problema, aggiunge Marielle Chautin, è che in Bolivia il governo non mette in atto una legislazione rispettosa dell’ambiente.
Le norme europee devono essere ulteriormente migliorate, anche perché altri ecosistemi sono in pericolo. Il problema potrebbe in effetti spostarsi: se le foreste pluviali vengono monitorate, gli allevatori o i coltivatori potrebbero trasferirsi in altre aree ugualmente preziose.
È quello che è successo con la moratoria europea del 2006 sulla soia brasiliana coltivata in Amazzonia. Ora viene semplicemente coltivata altrove. Tuttavia, la Bolivia è uno dei paesi con la maggiore biodiversità al mondo, ospita ecosistemi che non esistono da nessun’altra parte.
La foresta amazzonica genera infatti piogge, raffredda la Terra, assorbe gas serra, immagazzina carbonio, custodisce il 10% della biodiversità mondiale, contrasta la desertificazione, produce acqua, cibo e medicine; oltre a custodire ancora comunità indigene senza le quali, spesso, molte aree della foresta amazzonica non sarebbero protette e custodite.