K metro 0 – New Delhi – Il diavolo si annida nei particolari, recita un vecchio proverbio. Anche nella lontana India, dove Mohar ʿAlī è stato arrestato, un mese fa, dopo aver aperto un piccolo museo nella sua casa in una frazione del distretto di Goalpara, nello stato indiano nord-orientale dell’Assam. Un museo in una stanza.
K metro 0 – New Delhi – Il diavolo si annida nei particolari, recita un vecchio proverbio. Anche nella lontana India, dove Mohar ʿAlī è stato arrestato, un mese fa, dopo aver aperto un piccolo museo nella sua casa in una frazione del distretto di Goalpara, nello stato indiano nord-orientale dell’Assam.
Un museo in una stanza. Realizzato da ʿAlī (leader di un partito politico locale) con circa 7.000 rupie (86$) per ospitare principalmente alcuni attrezzi e indumenti agricoli.
A chi poteva far paura? Forse, proprio il “particolare” di essere dedicato alla cultura dei “Miyas”, i musulmani di lingua bengalese nell’Assam, uno Stato indiano (di 31 milioni di abitanti, di cui un terzo musulmani) che nel 2019, ha posto quasi due milioni di musulmani a rischio di espulsione o reclusione in campi, perché non in grado di dimostrare la loro presenza in India prima dell’ondata immigratoria dopo l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan nel 1971, come spiega un reportage della BBC realizzato da Dilip Kumar Sharma e Zoya Mateen.
Due giorni dopo l’apertura del museo “Miya”, le autorità locali l’hanno chiuso. Hanno anche sigillato la casa di ʿAlī, sostenendo che aveva usato indebitamente la casa popolare (che gli era stata assegnata nell’ambito di un programma governativo per i senza alloggio) per scopi commerciali (sic!).
Insieme ad ʿAlī, la polizia ha arrestato altre due persone che avevano contribuito all’allestimento del museo. Un provvedimento pretestuoso, dovuto, ufficialmente…, non a questo bensì ai loro presunti legami con due gruppi terroristici. I tre hanno negato l’accusa.
Il diavolo si nasconde nei dettagli. Come a dire, la parte per il tutto (pars pro toto). Gli arresti sono infatti gli ultimi di una lunga serie di tentativi di emarginare la comunità musulmana in Assam, uno Stato complesso e multietnico in cui l’identità linguistica e la cittadinanza sono le maggiori linee di frattura politiche.
L’Assam (composto da indù di lingua bengalese e assamese, da un miscuglio di tribù e da musulmani) ha assistito per decenni a un movimento anti-immigrazione contro gli “estranei” dal vicino Bangladesh. I musulmani di lingua bengalese, in particolare, sono stati spesso accusati di essere immigrati privi di documenti.
Da quando è salito al potere nel 2016, il Bharatiya Janata Party (BJP) del premier Narendra Modi, ha compattato il suo elettorato (indù e comunità tribali) su basi etniche annunciando politiche discriminatorie verso i musulmani, presi di mira anche dall’attuale premier dell’Assam, Himanta Biswa Sarma, con una controversa campagna contro le invasioni illegali.
La maggior parte delle persone colpite erano musulmani di lingua bengalese, che sono diventati “un facile bersaglio della politica”, sostiene il dottor Hafiz Ahmed, uno studioso che lavora con la comunità.
L’India sta mettendo dunque a rischio di apolidia (ovvero di privazione di cittadinanza) 1,9 milioni di persone. Ma Vijay Kumar Gupta (ex vice presidente del BJP dell’Assam Pradesh) lo ha negato attribuendo ad “altri” la responsabilità di “creare tensioni” tra le comunità.
In tutta l’Asia meridionale, il termine “Miya” (che significa “sir” o “gentleman”) è usato come titolo onorifico per gli uomini musulmani.
Ma in Assam, ha una connotazione peggiorativa per additare i musulmani (migliaia di contadini emigrati dal Bengala orientale) che ora risiedono nel Bangladesh, con cui l’Assam condivide un confine poroso lungo quasi 900 km.
La stragrande maggioranza di questi migranti si era stabilita nelle “chars” – le isole effimere fluviali lungo il fiume Brahmaputra, che durante i monsoni vengono sommerse dalla piena.
Paria discriminati, oggi vengono spesso descritti come “infiltrati”, che stanno rubando i posti di lavoro e la terra delle tribù indigene assamesi, minandone l’identità.
Il museo “Miya” di Goalpara, ospitava oltre ad attrezzi agricoli tradizionali, attrezzi da pesca in bambù e una gamusa – il tradizionale indumento tessuto a mano dell’Assam, parte integrante della cultura del popolo Miya.
Ma molti leader del BJP lo hanno accusato di fomentare divisioni affermando che rappresentavano l’identità assamese, non quella della comunità musulmana di lingua bengalese.
L’idea di un simile museo in un importante centro culturale è stata proposta per la prima volta nel 2020 dall’ex leader del Congresso Sherman Ali Ahmed – che ha spesso sostenuto a gran voce la comunità islamica – ma ha dovuto affrontare la veemente opposizione del governo di Sarma.
A suo giudizio, non era giusto che Mohar ʿAlī aprisse il museo in una casa concessa dal governo, ma che la sua punizione era eccessiva.
“Non ha commesso alcun crimine grave” ha detto. “Il governo ha intrapreso azioni severe contro di lui e altri per spaventare la comunità”.
Il governo insomma stava cercando di sfruttare la complessità demografica dello Stato giocando sulle ansie del popolo assamese, che da tempo temeva di perdere la propria identità a causa degli immigrati.
D’altra parte, dopo anni di persecuzione, i musulmani “Miya, stanno cercando di ritagliarsi un proprio spazio. Ma come può esistere una comunità senza la sua identità culturale?