K metro 0 – Beirut – Persiste, in Libano, il fenomeno dello sfruttamento di migranti provenienti dall’Asia e “assunti” quali lavoratori domestici presso abitazioni territoriali: costoro sono privati di basilari diritti civili, come è stato denunciato da numerose organizzazioni umanitarie. I dipendenti in questione subiscono abusi per mano delle agenzie di reclutamento locali e, complice
K metro 0 – Beirut – Persiste, in Libano, il fenomeno dello sfruttamento di migranti provenienti dall’Asia e “assunti” quali lavoratori domestici presso abitazioni territoriali: costoro sono privati di basilari diritti civili, come è stato denunciato da numerose organizzazioni umanitarie. I dipendenti in questione subiscono abusi per mano delle agenzie di reclutamento locali e, complice la profonda crisi economica che ha investito il paese negli ultimi anni, sono ostacolati nella facoltà di affrancarsi da un datore di lavoro o, tuttalpiù, possono farlo dietro il corrispettivo pagamento di una somma pari o superiore a 2000 dollari.
Nello specifico, fra i circa 250.000 collaboratori domestici attualmente stimati a Beirut e nei territori limitrofi, si evince come il 99% di loro sia composto da uomini e donne provenienti dall’Etiopia, dalle Filippine, dal Bangladesh e dallo Sri Lanka che percepiscono un salario generalmente inferiore ai 400 dollari mensili. La recente crisi economica ha lasciato molti di loro senza lavoro: coloro che hanno potuto conservarlo sono soggetti tuttavia alla “Kafala”, ovvero ad un sistema di “sponsorizzazione” che impedisce loro di sciogliere un’occupazione senza il consenso del datore di lavoro, conferendo pertanto a quest’ultimo un controllo pressoché totale sulla vita dei salariati; costoro, frequentemente, tentano la fuga, assumendo uno status di clandestini e, nei casi più infelici, si tolgono o perdono la vita in tentativi di evasione dal proprio aguzzino.
Il sistema è stato denunciato in numerose occasioni da diverse organizzazioni e associazioni umanitarie a tutela dei diritti umani civili quali, ad esempio l’UN, l’UN Women, Amnesty International, The Caritas Lebanon Migrant Centre, l’International Domestic Workers Federation, Medicins sans Frontieres e l’associazione Kafa: quest’ultima, in particolare, è attiva nel tentativo di fornire servizi e assistenza legale, medica, sociale e psicologica a donne migranti lavoratrici che sono state soggette a violenze sessuali e fisiche dai loro “finanziatori”.
Nel giugno 2019 l’osservatore Human Rights Watch, gruppo di lavoro dell’International Labour Organization-ILO, ha presentato al ministro del lavoro libanese Camille Abousleiman una proposta di contratto unico, parzialmente accolto dalla successiva ministra Lamia Yammine; esso prevedeva, fra l’altro: una protezione legale per le collaboratrici domestiche e un salario minimo garantito; un tetto massimo di 10 ore lavorative giornaliere, unitamente alla garanzia di un fondo malattia e di un minimo di 6 giorni annuali di ferie; la facoltà di licenziarsi senza il consenso del superiore e senza perdere il diritto di residenza nel paese ospitante; il diritto al possesso di un proprio passaporto e di validi documenti di identità; la facoltà di usufruire di un proprio telefono e di poter comunicare con le forze dell’ordine in caso di necessità o pericolo. Tuttavia, la crisi economica generata dalla corruzione e aggravata dalla pandemia ha determinato, nell’ultimo anno, una regressione nel procedimento: molti datori di lavoro hanno abbandonato tali donne fuori dal consolato e dalle ambasciate, senza offrire loro un adeguato pagamento, un passaporto valido e un eventuale biglietto di rimpatrio per i paesi di origine.
Diversi report prodotti da agenzie UN e partner accademici – ad esempio, il Women migrant Domestic Workers in Lebanon: a gender perspective, prodotto dalla Lebaneese American University-LAU il 16 giugno 2021, con la collaborazione dell’Arab Institute for Women, dell’International Labour Organization, dell’UN Women – hanno condannato il governo nazionale quale responsabile degli abusi contro le domestiche migranti e hanno promosso un appello per lo smantellamento della pratica della Kafala e per l’effettiva applicazione di quel sistema di protezione legale prospettato negli anni precedenti.