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Nucleare: perché la Cina vuole un reattore nucleare al torio

Nucleare: perché la Cina vuole un reattore nucleare al torio

K metro 0 – Pechino – Si chiama torio. E il suo nome deriva da Thor, il dio norvegese del tuono. Scoperto nel 1829 da un sacerdote mineralogista norvegese (M.T.Esmark) fu in seguito identificato dal chimico svedese Jacob Berzelius, che lo battezzò con quel nome. Può servire come combustibile per reattori nucleari al posto dell’uranio.

K metro 0 – Pechino – Si chiama torio. E il suo nome deriva da Thor, il dio norvegese del tuono. Scoperto nel 1829 da un sacerdote mineralogista norvegese (M.T.Esmark) fu in seguito identificato dal chimico svedese Jacob Berzelius, che lo battezzò con quel nome.

Può servire come combustibile per reattori nucleari al posto dell’uranio. Ed è un metallo radioattivo che si trova in natura in quantità molto più abbondante dell’uranio. Un vantaggio decisivo per la sostenibilità dell’energia nucleare.

L’India ne possiede ingenti riserve e sta sviluppando un vasto programma nucleare che mira ad escludere, in prospettiva, l’uranio come materia prima.

E la Cina, che ha circa 50 reattori nucleari tradizionali (come quello di Taishan nel sud del paese) si sta preparando a testare, in settembre, il primo reattore al mondo a sali fusi di torio, nella città di Wuwei, nel Gansu: la sua più remota provincia occidentale al confine con il deserto dei Gobi.

Sarà un reattore che invece di barre di combustibile solido, usa torio sciolto in sale fuso che funge da refrigerante senza bisogno quindi di sistemi di raffreddamento ad acqua e ad alta pressione. In caso di incidente, il combustibile, esposto all’aria, si raffredda rapidamente e diventa solido, evitando in questo modo di contaminare vaste aree con materiale radioattivo, comprese le acque, come è avvenuto invece a Fukushima nel 2011.

Questa nuova tecnologia, presentata come “più pulita” e “più sicura”, ma che interessa la Cina soprattutto per ragioni geostrategiche, ha indubbiamente il vantaggio di produrre scorie radioattive tossicamente molto più basse rispetto a qualunque reattore all’uranio-plutonio.

Andrebbero infatti stoccate solamente per 300 anni (meno di quanto non serva per qualsiasi prodotto dell’industria chimica). Al confronto, il combustibile esausto di un reattore all’uranio di 3a generazione impiega circa un milione di anni per ridurre la propria radiotossicità a livelli inferiori a quelli dell’uranio naturale di partenza, mentre il combustibile di un reattore autofertilizzante all’uranio-plutonio impiega decine di migliaia di anni.

Il prototipo del reattore cinese al torio è di modesta potenza. Dovrebbe produrre energia per meno di 1.000 abitazioni. Ma se i prossimi test saranno soddisfacenti, verrà messo in cantiere un reattore capace di generare energia elettrica per più di 100.000 abitazioni. E questo consentirebbe a Pechino di diventare esportatore di una tecnologia di reattori di cui molto si parla da oltre 40 anni.

La Cina sta infatti riprendendo il testimone dagli Stati Uniti, che avevano costruito, poi abbandonato, un analogo reattore nucleare alla fine degli anni Sessanta. Esperimenti erano stati condotti negli USA negli anni ’60 e ’70. Ma l’avanzamento di questa tecnologia è stato lento.

Al torio sono stati preferiti uranio e plutonio – metalli molto più rari – anche per la loro maggiore “predisposizione” a essere usati per le armi nucleari.

La principale differenza con i reattori attuali è che “quasi tutti usano l’uranio come combustibile e acqua al posto dei sali fusi di torio”, ricorda Jean-Claude Garnier, ricercatore del Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives (CEA).

I reattori a sali fusi di torio sono tra le tecnologie più promettenti individuate dal forum Generation IV – un’iniziativa americana per promuovere la cooperazione internazionale nel campo del nucleare civile – per le centrali del futuro.

Il principio è che “è il sale stesso che diventa il combustibile”, sottolinea Sylvain David, direttore di ricerca al CNRS (Centre national de la recherche scientifique). I cristalli vengono mescolati con materiale nucleare – uranio o torio – quindi riscaldati ad oltre 500°C per diventare liquidi e trasportare il calore e l’energia prodotti.

Un processo che, sulla carta, offrirebbe maggiore sicurezza per gli impianti. “Certi rischi di incidenti sono teoricamente eliminati perché la combustione liquida evita situazioni in cui la reazione nucleare può andare fuori controllo e danneggiare le strutture del reattore”, sottolinea Jean-Claude Garnier.

Un altro vantaggio per la Cina è che questo tipo di reattori non hanno bisogno di essere costruiti vicino all’acqua, che serve a raffreddarli. Di conseguenza, possono essere installati in regioni isolate e desertiche, come il deserto dei Gobi, appunto.

Il vantaggio principale del torio “è che in natura ce n’è molto più dell’uranio”, spiega Francesco D’Auria, esperto di reattori nucleari dell’Università di Pisa.

Soprattutto, il torio appartiene alla famiglia delle cosiddette “terre rare” molto più abbondanti in Cina che altrove. Pechino potrebbe così aumentare la propria indipendenza energetica dai principali paesi esportatori di uranio come Canada e Australia, due paesi con i quali la Cina non ha i migliori rapporti diplomatici.

È anche una scommessa a lungo termine. “Per il momento c’è abbastanza uranio per rifornire tutti i reattori in servizio. Ma se il loro numero aumenta, potremmo arrivare a un punto in cui l’offerta si restringerebbe, mentre l’uso del torio consente di ridurre drasticamente il fabbisogno di uranio” spiega Sylvain David.

I fautori del torio aggiungono che è anche una soluzione “più pulita” perché la sua combustione non crea plutonio – elemento chimico molto tossico -, a differenza dell’uranio attualmente utilizzato nelle centrali nucleari, sottolinea la rivista “Nature”.

Sulla carta, quindi, la combinazione tra sali fusi e torio sembra perfetta. Se non è stata sfruttata prima, “è principalmente perché l’uranio 235 era il candidato naturale per i reattori nucleari e il mercato non ha guardato molto oltre”, sostiene Francesco D’Auria.

Fra i tre elementi necessari a produrre una reazione nucleare – uranio 235, uranio 238 e torio – il primo è “l’unico isotopo fissile naturale”, ricorda Sylvain David. Gli altri devono essere bombardati con neutroni per essere utilizzabili da un reattore nucleare. Un processo fattibile ma più complesso.

Il torio produce uranio 233, il materiale fissile necessario per la produzione di energia nucleare. E questo è un altro problema: “Le radiazioni emesse dall’uranio 233 sono più forti di quelle degli altri isotopi, quindi bisogna stare più attenti”, avverte Francesco D’Auria.

Anche la fattibilità dei reattori a sali fusi è discutibile. Il rompicapo tecnico è che “a temperature molto elevate, il sale diventa corrosivo per le strutture del reattore e bisogna trovare un modo per proteggerle”, spiega Jean-Claude Garnier.

Ecco perché i test effettuati dalla Cina sul loro nuovo reattore saranno seguiti molto da vicino per vedere come gli ingegneri hanno superato questo ostacolo. Ma a parte questo, non c’è motivo di stappare lo champagne per un reattore che, oltre all’energia, produce uranio 233. «È un isotopo che non esiste allo stato naturale e che può essere utilizzato per costruire un bomba atomica”, sottolinea Francesco D’Auria.

I cinesi forse rivoluzioneranno l’industria nucleare, ma aggiungeranno anche un’ulteriore motivo di apprensione a tutti coloro che sono preoccupati per la proliferazione nucleare.

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