K metro 0 – Roma – Figure familiari, a volte tenute nell’ombra ma che spesso sono state indispensabili nella vita di molti uomini, soprattutto se artisti geniali, completamente immersi nel loro mondo creativo: molti di loro non sarebbero sopravvissuti senza l’aiuto di una sorella (loro o di loro intimi amici). Vediamolo ripercorrendo rapidamente la vita
K metro 0 – Roma – Figure familiari, a volte tenute nell’ombra ma che spesso sono state indispensabili nella vita di molti uomini, soprattutto se artisti geniali, completamente immersi nel loro mondo creativo: molti di loro non sarebbero sopravvissuti senza l’aiuto di una sorella (loro o di loro intimi amici). Vediamolo ripercorrendo rapidamente la vita di due grandi della nostra letteratura: Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli. Parliamo, questa volta, a proposito appunto di Leopardi.
Paolina Ranieri
Napoli, Capodimonte, 1837: una donna giovane e bella, Paolina Ranieri, si prodiga ancora nell’assistenza non facile a un illustre malato, Giacomo Leopardi; è la sorella di Antonio Ranieri, carissimo amico del grande poeta di Recanati.
Sette anni prima, quando avevano deciso di prendere a casa con loro il poeta, lei (che aveva già letto “I Canti”) aveva promesso al fratello che avrebbe assistito Leopardi come una “suora di carità”. Preparava per lui i cibi particolari che gli prescrivevano i medici e gli portava i dolci che Leopardi amava moltissimo. Nei giorni precedenti alla morte, lui era riuscito anche a mangiare i confetti di Sulmona ( la cittadina dell’Abruzzo sin dal ‘700 leader nella produzione di questi dolciumi) che Paolina gli aveva regalato: nonostante le gravi condizioni fisiche, ultima dolcezza di una vita così sofferta.
Paolina Ranieri non si è limitata solo a questo: insieme al fratello Antonio leggeva tutta la notte al poeta i testi da lui prescelti, in molte lingue, quando ormai Leopardi non vedeva più; Paolina infatti aveva studiato le lingue classiche, aveva una buona cultura di base e perciò poteva aiutarlo anche in questo, con sacrificio personale, insieme al fratello, che sentiva il disagio del ribaltamento di tutti i loro orari naturali.
Leopardi infatti non seguiva orari regolari: fin da piccolo aveva mantenuto l’abitudine di lavorare di notte, come faceva a Recanati, in quei “sette anni di studio matto e disperatissimo”, chino sui libri, con le coperte sulle gambe, alla luce di una candela; e aveva conservato anche in seguito questi orari, dormendo di giorno.
Nel suo libro “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, Antonio Ranieri ha tenuto a ricordare (dopo 40 anni dalla morte del poeta) i loro sacrifici, vòlti all’assistenza fisica e morale di Leopardi sino alla fine: il fratello definiva Paolina una “creatura angelica” e “una suora di carità”. Hanno assistito Leopardi fino all’ultimo, nella fase più difficile, e forse si aspettavano almeno un ringraziamento da parte della sua famiglia, che invece non si è mai manifestato.
Gli ultimi giorni di vita di Leopardi, ormai prostrato da molteplici malattie, sono stati i più drammatici per i fratelli Ranieri: le ripetute corse di Antonio da molti medici e infine dal prete, nel pieno dell’imperversare del colera; la sua lotta per sottrarre la salma alla fossa comune e procurargli una sepoltura degna del Conte Leopardi, trovandola, con difficoltà nella Chiesa di S. Vitale, a Fuori grotta.
Ranieri ha taciuto per quarant’anni :poi ha deciso di raccontare questa lunga amicizia, stanco per l’ingratitudine della famiglia e per le maldicenze che aveva sentito sul suo rapporto affettivo con il poeta.
Paolina Leopardi
Leopardi aveva anche un’unica sorella, Paolina, detta Pilla, anche lei imprigionata nel “carcere” di Recanati e in misura maggiore, essendo una donna all’inizio dell’800: doveva indossare abiti neri e austeri e per questo i fratelli la chiamavano scherzosamente “Don Paolo”. Dai ritratti che ci rimangono appare una forte somiglianza con Giacomo e un’espressione molto seria e chiusa; attribuiva con molto spirito la sua scarsa avvenenza al fatto che la madre era caduta al settimo mese di gravidanza perché lei “aveva fretta di vedere il mondo”, e perciò non aveva fatto in tempo a sacrificare alla Grazie.
Pur se all’interno della casa, i fratelli Leopardi, come tutti i bambini, hanno giocato tra loro e si sono divertiti rincorrendosi da una sala all’altra o immaginando storie e avventure epiche, osservando gli affreschi del soffitto. C’era molto affetto e confidenza tra loro; son sempre stati molto uniti, con un’affettuosità che non osavano manifestare nei rapporti con i loro severi genitori: questo legame si è mantenuto nel corso di tutta la vita, come si può leggere dal loro fitto scambio di lettere. Si chiamano con i loro soprannomi: Pilla, Muccio, Mucciaccio, Carluccio, Giacomuccio; e il tono è di confidenza e spigliatezza, scambiandosi dettagliati reso-conti delle loro esperienze.
Così, ad esempio, Paolina manifestava il suo affetto per il fratello: “Caro Muccio. Eccomi qui ad invocare una tua lettera, che tutti noi desideriamo ardentemente; appunto perché da tanto tempo la desideriamo…poco ti ricordi di noi”(aprile 1828).
Paolina sente molto la mancanza di Giacomo e così la esprime: “ …Volevo dirti come sempre ti cerco e sempre mi pare di sentire i tuoi passi, e mi muovo per vederti; ma già inutilmente, che tu non ci sei più, e per lungo tempo. E bisogna accomodarsi a quest’idea, che sempre meno mi affliggerà se tu mi assicurerai di amarmi ancora dove sei e di ricordarti spesso di me…” ( dicembre 1822).
La sorella di Leopardi era completamente chiusa in quel grande palazzo di Recanati; non poteva muoversi né viaggiare; occorreva un permesso scritto anche solo per uscire da casa, e non avrebbe mai potuto fare quello che ha fatto Paolina Ranieri, che (nella prima metà dell’800) poteva vivere insieme a due uomini, mantenendo salva la sua reputazione, grazie alla presenza di uno zio che abitava vicino a loro.
Paolina Leopardi, costretta nella “tomba per vivi”, non avrebbe mai potuto seguire il fratello Giacomo nei suoi viaggi o conoscere i suoi amici, perché all’epoca l’unica via d’uscita dalla casa paterna per una donna era il matrimonio (che infatti si stava combinando anche per lei): questo matrimonio , per cui Giacomo aveva scritto una famosa Canzone, “Per le nozze della sorella Paolina”, non venne però più concluso. La contessa, chiusa a Palazzo Leopardi, poteva accedere solo agli studi approfonditi con i precettori scelti dal padre, l’eruditissimo Monaldo. Come segno di emancipazione, il padre le aveva fatto ottenere la dispensa per accedere alla lettura dei libri che erano nella lista dell’ ”Index librorum prohibitorum”, e poteva partecipare al giornale da lui fondato; conosceva benissimo la lingua francese e “non ne poteva più dei lavori femminili”, come aveva raccontato nelle molte lettere che ci rimangono di lei. Dopo la morte della madre, Paolina poté finalmente viaggiare e tornare nei luoghi dove era stato Giacomo quando lei non poteva accompagnarlo: Firenze, Pisa, Napoli, per visitare la sua tomba.
Scriveva molte lettere, soprattutto alla cognata, Teresa Teja, “Carinella cara…”, raccontandole i particolari di questi viaggi, le novità della moda che vedeva, la gente che voleva sapere notizie particolari del fratello Giacomo. E’ stato l’unico periodo della sua vita in cui Paolina ha finalmente vissuto in maniera normale, attribuendo all’autoritarismo della madre la colpa dei suoi precedenti anni di “reclusione in casa”.
Anche le sue aspirazioni letterarie erano state contenute dai tanti divieti, e ora, in età matura, si consolava scrivendo lettere ad amiche e parenti.
Concluse la sua vita proprio a Pisa, dove Giacomo, nel 1827 – ’28, aveva trascorso uno dei rari periodi sereni della sua tormentata esistenza.
di Silvana Conti