K metro 0 – Roma – Tra il crepuscolo dell’Illuminismo e l’alba del Romanticismo si collocò Hegel (1770- 1831), filosofo dall’asciutto rigore espositivo, non esente peraltro da contraddizioni, il cui pensiero rimase centrale nella riflessione filosofica a lui successiva, sia a lui favorevole che contraria. In ordine alla teoria dello Stato, per ciò che più
K metro 0 – Roma – Tra il crepuscolo dell’Illuminismo e l’alba del Romanticismo si collocò Hegel (1770- 1831), filosofo dall’asciutto rigore espositivo, non esente peraltro da contraddizioni, il cui pensiero rimase centrale nella riflessione filosofica a lui successiva, sia a lui favorevole che contraria.
In ordine alla teoria dello Stato, per ciò che più da vicino ci interessa, Hegel ricusando il contrattualismo già caro all’interpretazione giusnaturalistica, sostenne che tale istituzione era il frutto dello spirito del popolo affermatosi nel corso della Storia, con intrinseci caratteri di razionalità.
L’uomo non doveva opporsi al movimento della storia – oggettivamente buona – nel cui corso andavano ricomprese anche le tragedie e le sofferenze dell’umanità: chi se ne lamentava, secondo l’A., doveva addirittura essere considerato immorale, poiché seguiva una sua idea soggettiva del bene.
Essendo lo Stato un valore assoluto, nessuna giurisdizione internazionale era da ritenersi ammissibile al di sopra di esso, con la conseguenza che per Hegel erano inconcepibili organismi preordinati a risolvere le controversie tra gli Stati: la guerra sarebbe stata l’unico mezzo attraverso cui avrebbe finito con il prevalere quello Stato che era giusto dovesse vincere.
Le basi per l’espansionismo guerrafondaio e per lo Stato etico che avrebbe preso drammaticamente forma sia nel nazifascismo che nel comunismo, erano tutte presenti nella gelida teoria hegeliana, antitetica ad una consolidata tradizione etica, giuridica e filosofica, che fin dagli albori della civiltà greca aveva considerato lo Stato come strumentale alla realizzazione dei diritti dell’Uomo e non quest’ultimo come asservito al primo.
Di ben altro tenore nella storia del cammino della civiltà, è il pensiero di Alexis de Tocqueville, il filosofo dei Due Mondi(1805-1859), che scrisse la più vasta e lucida opera mai realizzata da un europeo sugli Stati Uniti d’America, che sin dal loro costituirsi adottarono una legislazione di common law, cioè dove- a differenza degli Stati continentali europei di derivazione romanistica- la principale fonte del diritto era (ed è tuttora) costituita dalle sentenze dei giudici.
Onde evitare che la democrazia fagocitasse il liberalismo, cioè che la mera logica dei numeri potesse prendere il sopravvento sull’individuo, occorrevano degli antidoti a tutela delle minoranze: questo problema fu centrale nel pensiero e nell’opera di Alexis de Tocqueville. Egli vide chiaramente che la mobilità delle classi sociali era una forza positiva che poteva scongiurare tendenze involutive, al pari della nascita di tante associazioni intermedie fra lo Stato ed il cittadino, cioè di quella pluralità ordinamentale che in Italia avrebbe avuto in seguito un sostenitore appassionato in Santi Romano.
Nel nuovo Mondo la realtà del Comune si era configurata da subito come la struttura organizzativa fondamentale, il che fu puntualmente rilevato dal pensatore francese, che così annotò: “nel Comune, come dappertutto, il popolo è la fonte dei poteri sociali, ma in nessun luogo esercita la sua funzione così direttamente… Il corpo degli elettori, dopo aver nominato i magistrati, li dirige lui stesso in tutto ciò che non è pura esecuzione delle leggi dello Stato”.
L’America gli apparve l’organizzazione statuale ideale, nella quale gli individui da soli, o nelle agglomerazioni intermedie, potevano liberamente decidere del loro futuro prima di qualsiasi intervento da parte del potere centrale: ecco allora il decentramento amministrativo, l’esercito federale, il sistema radicato delle libertà civili e politiche, e così via.
Giunto Oltreoceano, Tocqueville rilevò che: “Non vi è avvenimento politico in cui non si intenda invocare l’autorità del giudice”. Negli Stati Uniti, come in Europa, il giudice operava solo previo esperimento di un’azione processuale e si occupava soltanto del singolo caso sottopostogli.
Tuttavia aveva dei poteri ben più ampi rispetto a quelli dei colleghi europei, poiché – proseguiva l’A. – “gli americani hanno riconosciuto ai giudici il diritto di fondare le loro sentenze sulla Costituzione, piuttosto che sulle leggi. In altri termini, hanno loro permesso di non applicare quelle leggi che ritengono incostituzionali”.
In America la Costituzione non era ritenuta immutabile come in Francia, ma non poteva tuttavia neanche essere modificata dai poteri ordinari come in Inghilterra, dal momento che occorrevano delle procedure lunghe e complesse nell’ambito di forme prestabilite.
Allora come oggi, la Costituzione era garantita dalle Corti di Giustizia, in grado anche di paralizzare le leggi ordinarie che fossero state ritenute in contrasto con la Costituzione medesima.
Dette Corti, e quella Suprema più di ogni altra, erano dotate di poteri tali che qualcuno aveva definito enfaticamente quello degli Stati Uniti come un “Governo dei Giudici”.
Il cittadino americano dunque, che si fosse ritenuto vulnerato da una determinata legge, sapeva di poter ricorrere alla via processuale per evitarne gli effetti, con la conseguenza che innanzi al moltiplicarsi del contenzioso giudiziario, la legge impugnata finiva con il perdere l’efficacia sua propria. Pertanto – proseguiva l’A. – o il popolo cambiava la Costituzione, grazie alla quale la legge era disattesa con giurisprudenza costante, oppure il Parlamento modificava la legge stessa.
Proprio in ragione della struttura federale del proprio Stato, il governo americano doveva poter contare più di ogni altro sull’appoggio della giustizia, poiché il federalismo lo rendeva naturalmente più debole innanzi ad eventuali conflitti con la periferia.
L’unitarietà della giurisdizione si esprimeva a livello di vertice nella Suprema Corte degli Stati Uniti, competente a decidere sulle questioni di interesse generale o di particolare importanza istituzionale , elencate testualmente.