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Il cammino della civiltà- (Parte IV)

Il cammino della civiltà- (Parte IV)

K metro 0 – Roma – Tomas Hobbes (1588-1679), teorico dell’assolutismo, partendo dalla pessimistica affermazione di un’innata bellicosità del singolo nei riguardi dei suoi simili (homo homini lupus), ritenne indispensabile che tutti si accordassero per uscire da siffatta condizione di incombente potenzialità collisiva, per realizzare un assetto stabile di equilibrio sociale (pax est quaerenda). A

K metro 0 – Roma – Tomas Hobbes (1588-1679), teorico dell’assolutismo, partendo dalla pessimistica affermazione di un’innata bellicosità del singolo nei riguardi dei suoi simili (homo homini lupus), ritenne indispensabile che tutti si accordassero per uscire da siffatta condizione di incombente potenzialità collisiva, per realizzare un assetto stabile di equilibrio sociale (pax est quaerenda). A tal fine, con un comune accordo da onorare reciprocamente (pactis standum), i membri di una data collettività avrebbero dovuto creare una struttura organizzativa durevole (pactum unionis) in seno alla quale, rinunziando ai loro diritti – salvo quelli alla vita ed all’integrità fisica – in favore dello Stato (pactum subiectionis), ne avrebbero ricevuto in cambio la pace, la tranquillità e l’ordinata convivenza civile.

Il patto in questione non era tra i cittadini ed il Sovrano, ma tra di essi soltanto in favore di un soggetto terzo, quale doveva considerarsi appunto il Sovrano medesimo.

Quello dello Stato, immaginificamente impersonato dal Leviatano (o dio mortale), era un potere immenso, capace esso stesso per il tramite di chi lo governava, di decidere di volta in volta che cosa fosse giusto o meno, che cosa fosse bene o male, al di fuori di ogni riferimento trascendente.

In tal modo il Leviatano fu precursore degli Stati totalitari moderni, in cui si sarebbe annullata ogni autonomia politica e morale dell’individuo.

In conclusione: lo Stato traeva origine da presupposti giusnaturalistici (pax est quaerenda et pacta sunt servanda), finendo tuttavia per configurarsi come fonte esclusiva di diritto positivo.

Blaise Pascal (1623-1662) dopo aver cercato affannosamente dei principi di giustizia universale, concluse sconsolatamente il fallimento della sua ricerca con la presa d’atto di un relativismo giuridico, dato che ognuno si doveva attenere alle costumanze del proprio Paese.

Solo Iddio era il vero bene dell’uomo, per cui “senza la Fede, l’uomo non può conoscere né il suo vero bene, né la giustizia”. Pascal esortò a scommettere in favore dell’esistenza di Dio, perché – scrisse – “se vincete, guadagnate tutto, se perdete, non perdete nulla”.

Il suo orientamento può definirsi espressivo di un giusnaturalismo cristiano, che si poneva in oggettiva dissonanza con le nuove correnti di pensiero alla ricerca di una giustizia disancorata da ogni riferimento al Trascendente.

Samuel Pufendorf (1632-1694),  protestante, sostenne che Dio stesso aveva creato delle leggi naturali perché gli uomini, adeguando ad esse quelle positive, potessero vivere ordinatamente e seguire quella razionalità che li distingueva dagli animali.

Mentre le leggi naturali si imponevano nella sfera della corretta coscienza, quelle civili si avvalevano della coercitività.

La sovranità politica fu conseguente ad un previo pactum unionis, con cui gli individui si  erano aggregati ponendo i principi fondamentali che avrebbero in seguito regolato la loro vita in comune, per passare poi al pactum subiectionis.

In virtù di quest’ultimo patto, il Sovrano ebbe un potere di imperio che non era tuttavia illimitato, in quanto la sovranità politica si legittimava per la sua esclusiva funzione di garanzia di sicurezza, attraverso la quale ogni cittadino era posto in grado di fruire indisturbato dei frutti del suo lavoro e di vedere tutelati i diritti pre-statuali, con il coinvolgimento di assemblee rappresentative.

John Locke (1632-170), rappresentante dell’empirismo inglese, sostenne che non esistevano idee innate, poiché al momento della nascita la mente era come una tabula rasa, destinata a riempirsi attraverso i dati acquisiti con l’esperienza, in virtù della quale l’ordine morale naturale si manifestava alla ragione: ne conseguiva che la razionalità dell’agire di un soggetto era comprovata dal consenso o dal dissenso sociale, peraltro mutevoli nel tempo.

Pur nella mutevolezza storica e geografica del comune sentire, ricorrevano comunque con carattere di costanza dei valori condivisi, nei quali poteva rispecchiarsi più o meno oscuramente la ragionevolezza del proprio pensiero, con il conseguente timore di una considerazione negativa da parte della società.

Al di sopra dunque di siffatta mutevolezza, la coscienza morale (o ragionevolezza) aveva però massimamente il suo parametro di validazione nell’ordine posto da Iddio stesso, la cui voce – spiegava il Locke – era peraltro ascoltata ed interpretata variamente tra le diverse genti, onde si aveva una pluralità di religioni storiche, che andavano tutte rispettate (principio di “tolleranza)..

Anche egli, come l’Hobbes, postulò la necessità di un’organizzazione statale, che però non era assolutistica, ma di tipo liberale, essendo articolata in tre distinti poteri: il Legislativo, l’Esecutivo, ed il Federativo (che era quello di gestire la politica estera).

Il contratto sociale che vi aveva dato origine, era un libero patto in virtù del quale gli individui convenivano di non privarsi di ogni potere innanzi ad uno Stato onnipotente, ma delegavano solo quello di difesa e di farsi giustizia da soli. In conseguenza di ciò, lo Stato trovava ragione e limite nel fine stesso per il quale era stato istituito: provvedere con le sue norme a difendere i diritti naturali alla vita, alla libertà  ed alla proprietà, ad esso preesistenti

Non era lo Stato l’entità assoluta ed insindacabile configurata da Hobbes, bensì lo strumento per eccellenza destinato al miglior esercizio dei citati diritti.

Da un consuntivo della dottrina del Locke, i cui cardini essenziali possono riassumersi nel carattere naturalistico ed inalienabile dei diritti dell’uomo, nel rifiuto di ogni tipologia di potere assoluto, nella giustificazione del diritto di resistenza e nella teorizzazione della separazione dei poteri, è dato concludere che egli può considerarsi a buon titolo fondatore del liberalismo moderno.

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