K metro 0 – Bruxelles – I Ministri del Trasporto e degli Affari Esteri di 9 Stati membri dell’UE hanno firmato congiuntamente una lettera lo scorso 29 giugno, in relazione al voto del Parlamento europeo del prossimo 9 luglio sul “Primo Pacchetto Mobilità”, che potrebbe mettere in pericolo il “Green Deal” – ossia l’insieme di iniziative politiche, portate avanti
K metro 0 – Bruxelles – I Ministri del Trasporto e degli Affari Esteri di 9 Stati membri dell’UE hanno firmato congiuntamente una lettera lo scorso 29 giugno, in relazione al voto del Parlamento europeo del prossimo 9 luglio sul “Primo Pacchetto Mobilità”, che potrebbe mettere in pericolo il “Green Deal” – ossia l’insieme di iniziative politiche, portate avanti dalla Commissione europea, con l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050 – e il Mercato Unico Europeo.
I nove paesi coinvolti nell’iniziativa – Bulgaria, Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia e Romania – chiedono sostanzialmente ai parlamentari Ue di rivedere il pacchetto normativo: nella missiva si evidenzia come il piano “stabilirà un nuovo standard per il trasporto stradale europeo, ma inciderà sostanzialmente anche sul corretto funzionamento del mercato unico dell’Ue”.
I paesi – si legge nella lettera – benché condividano e approvino i principali obiettivi della proposta – ossia un miglioramento delle condizioni dei trasportatori, l’efficienza e la sostenibilità del trasporto su strada, oltre al mantenimento del regolare funzionamento del mercato unico dell’UE – ritengono che siano state introdotte nuove misure restrittive e sproporzionate. Il riferimento è soprattutto all’obbligo per i camion di tornare regolarmente (ogni 8 settimane) allo Paese di stabilimento. Questo comporterebbe – secondo i ministri firmatari – ad un’ondata di protezionismo sul mercato interno dell’UE; impatti sulla competitività dei produttori dell’Ue; ad un aumento delle emissioni di biossido di carbonio.
Ricordiamo che il “Primo Pacchetto mobilità” venne approvato in via provvisoria – tramite un accordo siglato tra il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa – lo scorso dicembre 2019: già in quella circostanza, alcuni paesi dell’est europeo, si erano fermamente opposti all’obbligo di rimpatrio dei mezzi di trasporto nel paese di immatricolazione. Lo scopo di tale provvedimento – da un punto di vista del Consiglio Ue, come precisato in un comunicato stampa del 20 dicembre 2019 – era quello di impedire alle società di trasporti delocalizzate di mantenere i propri automezzi ed i relativi autisti in perenne circolazione, spostandoli tra i vari Paesi europei. Si sarebbe quindi trattato di un meccanismo atto ad ostacolare l’elusione della normativa sulla turnistica del lavoro. Già in quell’occasione era stato contrapposto – da parte degli stessi Paesi firmatari la missiva di pochi giorni fa – il tema dell’aumento della CO2 a causa dei viaggi forzati.
Inoltre, ad aprile 2020 il blocco dell’est – riportava Reuters, divulgando il contenuto di una prima lettera inviata al Parlamento Ue – aveva ribadito che le nuove regole avrebbero reso ancora più vulnerabili le imprese di autotrasporto dei loro Paesi, già colpiti duramente dall’emergenza causata dal coronavirus.
“Contiamo sulla tua comprensione della questione durante la sessione plenaria – si conclude l’ultima lettera del 29 giugno – rispetto alle migliori pratiche legislative e alla disponibilità a contribuire alla competitività del mercato unico europeo, all’attuazione di fatto del Green Deal e al benessere delle famiglie dipendenti dal settore dei trasporti”.