K metro 0 – Washington – Il presidente Donald Trump ha annunciato venerdì che porrà fine allo status commerciale speciale di Hong Kong
K metro 0 – Washington – Il presidente Donald Trump ha annunciato venerdì che porrà fine allo status commerciale speciale di Hong Kong e che sospenderà i visti ad alcuni cittadini cinesi identificati dagli Stati Uniti come possibile rischio per la sicurezza nazionale, aumentando così ulteriormente le tensioni con Pechino.
“La Cina ha violato la sua promessa di assicurare l’autonomia di Hong Kong”, ha affermato Trump. Gli Stati Uniti quindi, hanno avviato il processo di eliminazione del “trattamento speciale” per Hong Kong, dopo la stretta di Pechino, l’isola “non è più autonoma”. Le esenzioni finora garantite ad Hong Kong comprendono una “vasta gamma” di accordi, dall’estradizione, al commercio, alla tecnologia, ha detto Trump. La Cina, continua il presidente Usa, è in “aperta violazione” degli obblighi derivanti dal trattato sull’autonomia di Hong Kong, saranno anche prese una serie di “sanzioni contro i dirigenti del partito comunista cinese”.
Insomma, un fronte internazionale guidato dagli Stati Uniti condanna la legge sulla sicurezza per Hong Kong voluta da Pechino. In una dichiarazione congiunta, Usa, Regno Unito, Australia e Canada invitano la Cina a rivedere la sua decisione, che a detta loro è contraria agli impegni internazionali assunti dal governo cinese.
La questione di Hong Kong, precedentemente, è stata al centro di una conversazione telefonica tra il presidente Usa Donald Trump e il premier britannico Boris Johnson. I due leader, informa la Casa Bianca, “hanno ribadito l’importanza della Dichiarazione congiunta Cina-Regno Unito e hanno concordato su una stretta collaborazione nel rispondere a qualsiasi azione da parte della Cina che comprometta la Dichiarazione o vada contro la volontà del popolo di Hong Kong”.
Dal canto suo il Ministro degli Esteri britannico Dominic Raab, ha anticipato che, se la Cina continua su questa strada, Londra ha l’intenzione di offrire la cittadinanza a oltre 300mila residenti di Hong Kong: “Consentiremo ai titolari di passaporto BNO di venire nel Regno Unito e di fare domanda per lavorare e studiare per periodi di 12 mesi e questo andrà a costituire un percorso per la futura cittadinanza”, ha dichiarato Raab. Per la Gran Bretagna la nuova legge sulla sicurezza nazionale, che Pechino vuole imporre a Hong Kong, rappresenta un rompicapo politico: da una parte c’è la necessità di difendere l’autonomia della sua ex colonia, dall’altro Londra non vuole mettere a repentaglio i ricchi affari che la vedono prima in Europa per investimenti cinesi, con un totale, che negli ultimi cinque anni, ha superato l’intero trentennio precedente. L’eventuale offerta di cittadinanza sarebbe un segnale politico forte, soprattutto in tempi di stretta sull’immigrazione post Brexit. Il passaporto speciale Overseas fu concesso da Londra a tutti coloro che potevano richiederlo prima del trasferimento dalla sovranità britannica del territorio a quella di Pechino nel 1997. Al momento quel passaporto consente ai cittadini ‘speciali’ soltanto visti di durata non superiore ai sei mesi per viaggi nel Regno Unito e l’assistenza consolare di Londra.
Si muove anche l’Europa. “La Ue esprime profonda preoccupazione per le misure adottate dalla Cina il 28 maggio, che non sono conformi ai suoi impegni internazionali, né alla costituzione di Hong Kong e rischiano di compromettere seriamente il principio ‘un Paese, due sistemi’, come pure l’elevato livello di autonomia della Regione amministrativa speciale di Hong Kong”. Lo ha detto l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue Josep Borrell, al termine della riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi Ue.
Gli alti dirigenti del governo di Hong Kong hanno reagito sabato dopo il lungo intervento di Trump, in cui affermava che ci saranno una serie di “sanzioni contro i dirigenti del partito comunista cinese” nell’isola. Il ministro della sicurezza John Lee ha detto ai giornalisti che il governo di Hong Kong non deve essere minacciato e avrebbe portato avanti le nuove leggi, riporta la Reuters.
Intanto, lo status speciale di cui gode Hong Kong gli consente di intrattenere rapporti commerciali privilegiati con gli Usa, rispetto al resto della Cina. In pratica, le tecnologie Usa sensibili e dunque protette, non potranno più essere importate a Hong Kong e le esportazioni della città potrebbero essere colpite con le stesse tariffe applicate al commercio cinese. Tutto ciò rischia di trasformarsi in una fortissima perdita di affari per Hong Kong, il cui sistema legale è attualmente favorevole alle imprese e la cui rete di servizi finanziari, logistici e professionali, è imperniato su due punti di forza, la libertà di parola in stile occidentale e la facilità di movimento che il provvedimento di Pechino potrebbe minare.
Da qualche tempo le aziende globali con sede nell’isola stavano già spostando alcune operazioni a causa dell’aumento dei costi e dell’incertezza dopo scontri prolungati, a volte violenti, tra polizia e manifestanti democratici. Questa fuga delle aziende da Hong Kong potrebbe intensificarsi nei prossimi mesi. “Un Paese, due sistemi è sempre stata una bugia, poco più di ‘Una Cina’ sotto mentite spoglie” scrive l’attivista hongkonghese Joshua Wong su Twitter. “Ora l’assetto geopolitico dell’Asia sta cambiando davanti ai nostri occhi. Come baluardo di libertà, Taiwan merita il sostegno del mondo per emergere come potenza regionale. L’era dell’isolamento è finita”. Wong ha anche commentato la copertina che l’Economist ha dedicato alla nuova legge cinese sulla sicurezza, avvertendo che “è il mondo a doversi preoccupare”. E ha scritto: “Una nuova grande copertina.
Dopo la legge sulla sicurezza nazionale di #HongKong, il prossimo obiettivo di Pechino è #Taiwan, con la comunità globale che si rivolge a noi, invito tutti a non dimenticare la bella isola democratica”.
Nel frattempo in Cina, alle prese con il contenimento della crisi della pandemia e che sta evitando l’esplosione di proteste, emerge la parola chiave stabilità: Un mantra, un termine (wěn) ripetuto ben 41 volte da Li Keqiang durante la presentazione del rapporto di lavoro del governo in apertura della terza sessione della 13esima Assemblea nazionale del popolo.