K metro 0 – Roma – Gli ultimi tre mesi sono stati particolarmente interessanti per i sociologi. Si, non soltanto per i virologi. L’epidemia di coronavirus, esplosa in Cina nel dicembre del 2019, ha colpito con alcune centinaia di contagiati e pochissimi decessi (tra anziani già malati) in tutta Europa. In Italia sembrano essersi scoperti
K metro 0 – Roma – Gli ultimi tre mesi sono stati particolarmente interessanti per i sociologi. Si, non soltanto per i virologi. L’epidemia di coronavirus, esplosa in Cina nel dicembre del 2019, ha colpito con alcune centinaia di contagiati e pochissimi decessi (tra anziani già malati) in tutta Europa.
In Italia sembrano essersi scoperti tutti igienisti. Mascherine, alcool, candeggina. Sembra che gli italiani prima del virus vivessero in una specie di trogolo, in cui passassero il tempo a sguazzare. I sociologi impegnati nell’analisi della psicologia di massa si sono ingolositi. La psicosi dilagante è chiaramente sproporzionata, per ora, all’entità del male. Chiaramente il virus è particolarmente contagioso. Sebbene virulento, non si dimostra più pericoloso di una forte influenza stagionale. Non è sminuendo un problema che lo si risolve; tuttavia cercare di inquadrarlo, passo dopo passo, nel giusto contesto, aiuta a definire e rimodulare costantemente l’entità del male. È saggio non abbassare la guardia. Forse, da questo periodo, ci sveglieremo più attenti e, in definitiva, più scrupolosi per quanto concerne l’igiene pubblica. Non quella privata, in cui ancora gli italiani sono particolarmente solerti. Il web come mass media per eccellenza ha bombardato da subito con milioni di informazioni. Molte delle quali di dubbia autenticità. Il “coronavirus affaire” ha dimostrato quanto l’ignoranza sia diffusa nel nostro Paese e quanto incida negli equilibri sociali. L’abitudine a non vivere informati, a non acculturarsi, informandosi molto (e male) soltanto quando c’è un’emergenza, sta procurando una psicosi diffusa. Quando si seppe che in Italia vi erano ben 2 contagiati è quasi scoppiato il panico. Con un morto, le persone hanno fatto incetta di mascherine e disinfettanti. Ci “siamo” fatti prendere dal panico per un decesso e pochi contagiati da questo virus, quando, probabilmente, quasi tutti ignorano che in Italia, ogni anno, vengono riconosciuti dai 6 ai 9 malati di lebbra. Si, lebbra, una parola atroce, che fa paura quanto “peste”. Un morbo batterico particolarmente feroce, molto antico e che i più credono scomparso, o confinato in qualche cimicioso Paese terzomondista.
In Italia i quattro centri di ricerca sulla lebbra (Genova, Gioia del Colle (Bari), Messina e Cagliari) hanno il compito di riconoscere la malattia e guarirla, quando possibile, grazie alla terapia PCT, una polichemioterapia attiva dal 1981 e che si basa sull’assunzione di ben tre farmaci. Il problema della lebbra consiste nel fatto che il suo studio è difficile, in quanto il batterio non si sviluppa sottovetro in laboratorio, ma preferisce farlo direttamente nel corpo umano. Questo rende ancor più difficoltoso il suo studio. Se noi sapessimo che dall’India o dall’Africa un turista ha importato la malattia nel nostro Paese, come ci comporteremmo? Bene, tutti gli anni ce ne sono alcuni, ma pare non interessare.
Questa riflessione serve a chiarire quanto sia importante mediare tra l’indifferenza e l’allarmismo. Non facciamoci quindi trovare impreparati. Ma non soltanto dal coronavirus. La società in cui viviamo, con meno confini, è sempre più globale. Questo porterà a dover fare i conti non soltanto con il viaggio dei turisti e dei migranti ma anche con quello dei parassiti e delle malattie. Ci porterà a dover fare i conti anche con il nostro provincialismo, a cui dobbiamo sostituire un nuovo atteggiamento: quello del cittadino e della cittadina post-globali.
di Danilo Campanella