K metro 0 – Firenze – Andi Shehu è il Co-presidente di Volt Italia e un dottorando all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Nato in Albania, si è trasferito ad Ancona all’età di 12 anni. È laureato in chimica e storia. In Volt ha contribuito a scrivere il programma europeo e ha fondato e coordinato i
K metro 0 – Firenze – Andi Shehu è il Co-presidente di Volt Italia e un dottorando all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Nato in Albania, si è trasferito ad Ancona all’età di 12 anni. È laureato in chimica e storia. In Volt ha contribuito a scrivere il programma europeo e ha fondato e coordinato i gruppi di Firenze e Toscana.
Intervista di Nizar Ramadan
Il Co-presidente di Volt Italia risponde alle domande di Kmetro0.it e ci parla di istruzione e formazione, economia e welfare, per far sì che il Paese torni ad essere attraente. Tra le domande anche la differenza tra un movimento paneuropeo e un movimento politico nazionale.
La principale differenza tra un movimento europeo e uno nazionale è il tipo di strumenti che si possono utilizzare e la modalità con la quale si possono portare avanti. Un movimento europeo come Volt, a differenza di uno nazionale, può agire in maniera coordinata, facilitato in questo dalla sua stessa struttura, per poter presentare un programma omogeneo nonostante le diversità locali. Abbiamo creato i nostri due documenti programmatici: Dichiarazione di Amsterdam e ‘Mapping of Policies’. Alle elezioni europee ci siamo presentati con un programma unico, la Dichiarazione di Amsterdam, per tutti gli Stati membri tenendo in considerazione le esigenze nazionali; il secondo documento, partendo dalle necessità locali, racchiude le basi delle proposte politiche che vengono poi sviluppate direttamente a livello locale, nazionale o europeo. L’obiettivo è duplice: Da una parte non dover affrontare gli stessi problemi molteplici volte, adattando in vari contesti i metodi e le pratiche che hanno dimostrato di poter funzionare, dall’altro mantenere un livello di coerenza all’interno di documenti complessi con un sistema a cascata.
L’idea di fondo è quella di una società aperta e inclusiva, che crei un ambiente capace di incentivare l’imprenditorialità, ma che allo stesso tempo non lasci indietro nessuno. Le priorità politiche di Volt sono il cambiamento climatico, la necessaria transizione energetica, la creazione di lavoro e i diritti in senso ampio (uguaglianza di genere, minoranze, migranti, fine vita, etc.). Riteniamo che la transizione energetica debba essere occasione per creare occupazione e per far diminuire le diseguaglianze sociali che sono peggiorate negli ultimi decenni.
A questo punto cosa ne pensa del nuovo programma presentato dalla neo presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen?
Condivido la necessità di un’Europa che assuma un ruolo di leader globale posta di fronte alle sfide della nostra epoca, agendo con coraggio e fermezza laddove un’azione coordinata e una voce unica portino maggior valore, come nel caso dell’‘European Green Deal’.
Sono d’accordo col trait d’Union del programma, il voler creare opportunità per tutti, con un approccio più inclusivo e aperto a partire da un partenariato rafforzato tra Commissione e Parlamento, quest’ultimo espressione diretta dei cittadini europei.
Su questo Volt Europa propone una serie di riforme che riteniamo potrebbero ridare slancio all’Unione europea.
Supportiamo il Green Deal europeo, specialmente dopo il fallimento della COP 25 di Madrid. L’anno prossimo c’è l’incontro a 5 anni dal trattato di Parigi del 2015 e sarà di fondamentale importanza. Diventa quindi necessario che l’Europa dimostri di essere un leader attraverso un coinvolgimento attivo degli stati membri.
Proponiamo di lavorare su un’economia che metta al centro le persone partendo dalla semplificazione dell’accesso ai vari fondi; al momento in molte regioni semplicemente mancano strumenti di base a istituzioni pubbliche e private, per sapere come avere accesso a tali fondi. Infine, affianco alla mitigazione degli effetti come disoccupazione e malattia, si dovrebbe incentivare l’investimento nel capitale umano, in modo da aumentare l’occupazione generale delle persone e aiutarle nella transizione tra un lavoro e l’altro.
Incentivare la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni.
La mancanza di iniziativa legislativa del Parlamento europeo andrebbe affrontata da una Commissione che parla di nuovo slancio per la democrazia. Al momento, il Trattato di Maastricht, rafforzato dal Trattato di Lisbona, permette una forma di iniziativa legislativa che passa attraverso la Commissione. Questo non è più sufficiente e il Parlamento europeo deve avere piena indipendenza nel processo di iniziativa legislativa, a tutela dei cittadini stessi.
Il Consiglio d’Europa ha un programma ambizioso nella difesa dei diritti umani dentro e fuori i confini. Secondo lei dove troverà più difficoltà?
Credo si tratti di due problemi profondamente differenti e che metterli sullo stesso piano possa essere problematico. Internamente al Consiglio d’Europa, ci sono strumenti legittimi e riconosciuti per poter agire ed appellarsi: come la Corte europea dei diritti dell’uomo. Quindi l’obiettivo di Marija Pejčinović Burić di assicurarsi che i giudizi della Corte vengano seguiti da tutti i Paesi è benvenuto, perché i problemi sono immensi dato che ci sono, tra i 47 Paesi membri, alcuni dove i diritti di base di alcune minoranze sono trascurati.
L’Unione europea dovrebbe incrementare la collaborazione con il Consiglio d’Europa per favorire l’applicazione dei suoi principi fondamentali in tutti i Paesi membri del Consiglio e partner dell’Ue stessa.
Cosa suggerisce all’Europa multiculturale: di parlare alla gente di più di integrazione o di inclusione?
Credo che integrazione e inclusione siano due processi che si rinforzano a vicenda. Per essere concreti, una persona proveniente da una cultura differente che si può sentire orgogliosamente parte di entrambe le culture, senza doversi ‘vergognare’, sarà anche molto più propensa a integrarsi nella cultura che lo accoglie. Pensare di parlare di integrazione senza inclusione significa purtroppo ridursi alla situazione dell’assimilazione che è quello che, sul lungo periodo, rischia di essere più problematico. In questo, con tutti i loro limiti, il modello canadese e statunitense sono avanti rispetto a quello europeo. Quest’ultimo è purtroppo ancora incentrato su una cultura dell’immigrazione assimilazionista che porta alla creazione di immigrati di seconda generazione che ancora non si identificano con la cultura del Paese in cui vivono, ma si sentono legati a Paesi che magari non hanno mai neanche visitato.
L’Europa sta investendo sui giovani e nella ricerca. Nonostante ciò continuiamo a sentire di fuga di cervelli. È un problema a livello europeo o di alcuni paesi europei?
Le statistiche parlano chiaro. Il sistema Paese non riesce ad offrire abbastanza a queste persone per convincerle a restare. Noi riteniamo che si debba agire su due fronti. Da una parte assicurare l’equità intergenerazionale. Sono oramai tantissimi gli studi che dimostrano come la maggior parte delle risorse in Italia, siano dedicate alle categorie più avanti con l’età e questo ci impedisce di investire sul futuro. Occorre spostare dunque le risorse da misure come Quota 100 a investimenti sull’istruzione e incentivi per le aziende che vogliono assumere giovani. Secondariamente, tutti i Paesi europei stanno incentivando la mobilità e quindi essa non è un problema in sé. Il vero problema dell’Italia rimane l’incapacità di attrarre talenti e allo stesso tempo trattenere i nostri che rappresentano un patrimonio inestimabile. In questo senso non esistono soluzioni facili, ma occorre semplicemente fare le riforme necessarie in ambito di istruzione e formazione, economia e welfare, per far sì che il Paese torni ad essere nel tempo attraente per coloro che vogliono costruire qui un futuro.