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Quando lavorare ti fa diventare povero. Dalla California alla Calabria la tendenza non cambia

Quando lavorare ti fa diventare povero. Dalla California alla Calabria la tendenza non cambia

K metro 0 – Avere un lavoro non basta più ad assicurare una vita dignitosa per sé e la propria famiglia. È una tendenza globale ormai divenuta emergenza in molti Paesi, che mina le fondamenta della coesione sociale e la stessa struttura dell’apparato statale. Gruppi di economisti, prestigiosi think tank ma anche le stesse élite

K metro 0 – Avere un lavoro non basta più ad assicurare una vita dignitosa per sé e la propria famiglia. È una tendenza globale ormai divenuta emergenza in molti Paesi, che mina le fondamenta della coesione sociale e la stessa struttura dell’apparato statale. Gruppi di economisti, prestigiosi think tank ma anche le stesse élite dei colossi finanziari, si interrogano su come intervenire. I governi chiedono risposte e suggerimenti per fronteggiare la crescita di questa povertà che sembra esplodere nel nuovo millennio, travolgendo anche le società avanzate di tutto l’Occidente.

In questi giorni negli Usa sono stati diffusi i dati sull’occupazione. A una prima lettura, tutto va a gonfie vele. “Il tasso di disoccupazione è al suo minimo da diversi decenni”, scrive Erica Pandey di Axios, che subito dopo aggiunge: “Ma l’altro lato della storia è che milioni di posti di lavoro là fuori non sono abbastanza buoni”. Ecco il punto: aumentano i posti di lavoro ma “non sono buoni”.
Spiega ancora l’analista: “Quasi la metà di tutti i lavoratori americani sono bloccati in lavori a basso salario che spesso non pagano in modo sufficiente per sostenere la propria vita, mancano di benefici e siedono esattamente nell’ottica dell’automazione”. Il nuovo che avanza porta nuovi lavoretti e nuove povertà.
Sono numeri che fanno spavento: 53 milioni di lavoratori- circa il 44% della forza lavoro totale – con un salario orario medio di 10,22 dollari e guadagni annuali medi di 18.000 dollari, secondo uno studio di Brookings.

Dalla California alla Calabria la tendenza non cambia. In Italia chi lavora in un’azienda con più di 250 dipendenti ha una retribuzione media-oraria di circa 16 euro, ma si scende a 10 euro l’ora nelle aziende con meno di dieci dipendenti, dove i diritti sono assenti e le regole viste con insofferenza. L’Istat certifica che i nuovi rapporti di lavoro non arrivano a dieci euro l’ora, una paga più bassa del 18,4% rispetto ai rapporti di lavoro esistenti. Ovviamente qui si parla di contratti “regolari”, che non comprendono il mare magnum del sommerso.

Eurofound, agenzia dell’Unione Europea per le ricerche sul lavoro, ha disegnato un prima mappa di quanto sta accadendo nel Vecchio Continente. Scrive: “In Europa cresce il part-time e rimane quasi invariato il tasso di occupazioni temporanee. La scomparsa dei lavori mediamente pagati e un mercato polarizzato tra posti ben retribuiti e occupazioni sottopagate, è dovuta sia al processo di digitalizzazione, che ha fatto sì che alcuni impieghi si automatizzassero, e sia al fenomeno di delocalizzazione.

La polarizzazione del mercato del lavoro – scrive più oltre l’Agenzia – si evidenzia particolarmente in Belgio, Spagna, Grecia e UK. In Italia e Ungheria crescono i lavori mal pagati o sottopagati”. Lo studio europeo sottolinea anche un aspetto spesso sottovalutato, cioè la vischiosità del mercato del lavoro che rende difficile un’evoluzione durante la vita lavorativa del cittadino: “L’occupazione temporanea difficilmente si trasforma in permanente nei Paesi dove il fenomeno di contratti a breve termine è maggiormente diffuso. Questo è il caso della Polonia e della Spagna, ma anche dell’Olanda e della Francia”.

Una situazione che, secondo i ricercatori, si traduce in un panorama non proprio roseo: molti degli impiegati temporanei rischiano per lo più di rimanere bloccati in questo tipo di precarietà, senza mai approdare a contrattazioni migliori, o tornano a essere disoccupati. Anche gli industriali osservano preoccupati queste tendenze. In Italia il Sole24Ore, affida alla penna di Maurizio Sgroi un’opinione per commentare lo studio dell’istituto di ricerca REF.

“La percentuale di work poverty in Italia è cresciuta dal 9,3% del 2007 all’11,7 del 2017 (ma, si badi bene, dal 18,2% al 20,5 per i dipendenti temporanei), seguendo una tendenza che non ha risparmiato nessun Paese fra quelli censiti. Nella ricca Germania si è passati dal 7,4 al 9,5%. In Francia dal 6,5 al 7,9, in Spagna dal 10,2 al 13,1%, registrando l’incremento maggiore nel confronto considerato”.

Notevole il commento che viene pubblicato dal giornale della Confindustria (che non è certo un foglio bolscevico): “I governi, pur di far crescere l’occupazione, hanno favorito le imprese sia sul piano fiscale che su quello delle regole del lavoro. Ma nessuno aveva considerato il rischio che la crescita dell’occupazione coincidesse con quello della proletarizzazione di chi lavora. Anzi, valutando i tassi di natalità del nostro Paese, forse la formulazione non è corretta. Oggi i lavoratori rischiano di diventare i nuovi poveri senza neppure la prole. Al massimo un cane”.

di Andrea Lazzeri

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