K metro 0 – Roma – C’è una vecchia ruggine che corrode l’acciaio europeo. In Italia si parla molto dell’ex-Ilva di Taranto come delle ex-Lucchini di Piombino. Due grandi progetti che prevedono investimenti miliardari, decisi da colossi siderurgici indiani Mittal e Jindal, ma che prendono poi il volo e scompaiono in cielo, come le macchine
K metro 0 – Roma – C’è una vecchia ruggine che corrode l’acciaio europeo. In Italia si parla molto dell’ex-Ilva di Taranto come delle ex-Lucchini di Piombino. Due grandi progetti che prevedono investimenti miliardari, decisi da colossi siderurgici indiani Mittal e Jindal, ma che prendono poi il volo e scompaiono in cielo, come le macchine volanti descritte dell’antico poema epico Ramayama nel secondo secolo prima di Cristo.
Storie che si ripetono anche in Francia e che preoccupano non poco la Germania. Nella scorsa estate è scattato l’allarme rosso e anche Commissione europea ha varato un articolato piano per frenare l’invasione di mercato. Un pacchetto di norme molto atteso e invocato dagli industriali Ue ma che oggi, di fronte all’accentuarsi della crisi, in molti giudicano insufficiente. Per decenni la siderurgia europea (quella tedesca e italiana in particolare) ha brillato per la qualità dei prodotti e l’elevato standard tecnologico. Oggi il sistema è arrugginito, aggettivo che suona come il male assoluto, quando si tocca l’argomento acciai.
Lo testimonia senza giri di parole Alessandro Banzato, presidente di Federacciai parlando con l’Adnkronos: “Nei primi otto mesi dell’anno la siderurgia italiana ha perso il 4,4% dei volumi di produzione. Così anche i tedeschi, quella francese il 2,2% i polacchi sono scesi del 10%”. Le prospettive non sono rosee. Aggiunge Banzato: “L’Europa si deve dare un scossa, l’industria europea ha bisogno di crescita ma anche di essere salvaguardate dalle dinamiche distorsive e dalla concorrenza sleale che rischiano di trasformare il nostro continente il punto di scarico della sovraccapacità produttiva”. Il riferimento è alle strategie commerciali degli Stati Uniti, della Turchia, dell’India e, soprattutto, della Cina accusata di fare dumping.
Chi guida le acciaierie col marchio UE ha bisogno di ritrovare la bussola perché l’incertezza dei mercati accentua la turbolenza. Ne sanno qualcosa gli stabilimenti Arcelor-Mittal francesi che per due volte in un solo anno vedono tagliati i target produttivi e occupazionali. Hanno gettato la spugna i Ceo Tissenkrupp e Tata-Stell facendo naufragare un tentativo di fusione. Per non parlare, poi, dell’ostilità sociale che si è creata intorno agli altoforni per i noti problemi di gestione ambientale.
I grandi gruppi dell’acciaio frenano sugli investimenti e denunciano handicap produttivi che li mettono in una condizione di svantaggio strutturale rispetto ai competitor stranieri. In particolare, il costo dell’energia elettrica che ha un costo troppo elevato e gravato da tasse e oneri che incidono enormemente sul ciclo produttivo. Secondo Eurostat i due Paesi leader nell’acciaio europeo – Germania e Italia – pagano l’energia elettrica per le proprie industrie circa 0,10 euro a Kwh in più rispetto alla stessa media europea. Con Cina e Usa non c’è gara.
Dall’inizio di quest’anno, l’Unione Europea ha reso operative una serie di misure sulle importazioni di acciaio e alluminio (regolamento di esecuzione 2019/159) che prevedono contingenti tariffari specifici in base al Paese per ciascuna categoria di prodotto. È un meccanismo di calcolo che prevede numerosi parametri e sistemi di valutazione. In pratica si stabilisce che ogni nazione può importare una determinata quota di prodotti da paesi extra-Ue, superata la quale scatta un super-dazio del 25%. Ad una prima lettura misura appare molto pesante ma non così la pensano i produttori europei che vedono nel sistema dei contingentamenti maglie troppo larghe per frenare la concorrenza sleale. L’Europa rischia di ingaggiare una lotta nei panni di Davide contro Golia ma con un finale non scontato: Worldsteel ha calcolato che l’acciaio Ue rappresenta il 10% di quello mondiale; la sola Cina raggiunge quota 46%.
di Andrea Lazzeri