K metro 0 – Venezia – Superato il giro di boa, la metà del percorso, la Mostra del cinema di Venezia potrebbe avere già il suo Leone d’oro, e forse anche più di uno. Se non ci fossero nei prossimi giorni, fino alla chiusura del 7 settembre, altri film meritevoli, non mancherebbero già un paio
K metro 0 – Venezia – Superato il giro di boa, la metà del percorso, la Mostra del cinema di Venezia potrebbe avere già il suo Leone d’oro, e forse anche più di uno. Se non ci fossero nei prossimi giorni, fino alla chiusura del 7 settembre, altri film meritevoli, non mancherebbero già un paio di titoli degni del massimo riconoscimento.
Non si può parlare probabilmente di capolavori assoluti, ma comunque di ottimi film che svettano già sugli altri in gara, una dozzina già passati sui 21 in cartellone.
E in rimo piano c’è il francese J’accuse, d Roman Polanski, uno dei primissimi film passati in concorso. E in queste prime posizioni si piazzano anche 2 americani: Joker, di Todd Phillips e Marriage story, di Noah Baumbach. Gli altri sono sembrati semplicemente film dignitosi, anche interessanti per gli argomenti in campo e per lo stile, ma non di particolare valore, come ci si aspetta legittimamente da un festival.
Tra questi ultimi purtroppo ricadono anche 2 dei tre film italiani già passati in concorso: Il sindaco del rione Sanità, di Mario Martone, la commedia di Eduardo De Filippo portata a teatro dallo stesso regista e ora ricostruita per il grande schermo in forma di vero e proprio film di finzione. La camorra di Martone è quella di oggi, attualizzata, che si richiama un po’ allo stile “Gomorra”, brutale fino alla ferocia, con quel “sindaco” che risolve da mafioso le controversie tra mafiosi, ma l’attualità voluta dal regista si ferma alla Napoli dei poveracci tenuti in soggezione, che magari non è poco e tuttavia fotografa il fenomeno solo da un punto di vista parziale; una camorra di basso e bassissimo livello quella del film, alla quale sono estranei i capibastone dell’associazione mafiosa e quella parte di società più o meno civile che vive in convivenza pacifica con la mafia napoletana, magari semplicemente girandosi da un’altra parte o accettando da succube i suoi ricatti. Negli intenti di Martone certo non c’era tutto questo, ma una rivisitazione del testo di Eduardo De Filippo che il regista ha voluto portare ad oggi, poteva e forse doveva essere più completa, un affresco sulla camorra, un potente film di denuncia, di cinema civile. Al di là di questi possibili limiti, ottima comunque la messinscena complessiva e la recitazione di tutti gli interpreti, a cominciare dal protagonista Francesco Di Leva, nel ruolo del “sindaco” anche a teatro, come altri del cast.
Anche l’altro film già passato in concorso Martin Eden, di Pietro Marcello, pur generoso e qua e là incisivo, molto poetico e frutto di un grande impegno non solo artistico, sembra non rispondere alle attese. Marcello si è ispirato all’omonimo romanzo in parte autobiografico di Jack London e ha portato il personaggio in Italia, facendogli percorrere per sommi capi la vita del Paese dai primi del ‘900 agli ultimi decenni. Una storia di emancipazione, di crescita individuale attraverso l’istruzione e la cultura. Un giovane quasi analfabeta da marinaio e altri durissimi mestieri scopre la cultura, si immerge nelle letture, vuole diventare scrittore, e ci riesce fino a raggiungere la fama, nella quale tuttavia affoga fino alla perdizione, sopraffatto dal demone dell’attività artistico-letteraria. In questo percorso passa, seppure da spettatore controcorrente, attraverso la politica e le lotte per una maggiore giustizia sociale portate avanti dai socialisti delle epoche passate, che lui osteggia seppure passivamente e da perdente perché più vicino al pensiero liberale, alla centralità dell’individuo, e alla filosofia di derivazione darwiniana dell’evoluzionismo anche nella società. Tanta carne al fuoco in questo Martin Eden in cui Marcello come il suo personaggio, interpretato da un ottimo Luca Marinelli, rischia di affogare per la complessità della materia e i tanti rivoli in cui essa si dipana. La mano del regista, autore di alcuni film di pregio tra documentario e finzione, tra i quali spicca La bocca del lupo, la sua opera prima di 10 anni fa, risulta più incisiva nei tanti momenti poetici, la cifra più affine al suo mondo artistico, sparsi lungo la pellicola.
Da Leone d’oro è invece il J’accuse di Polanski, che rievoca lo storico “caso Dreyfus”, l’ufficiale francese ebreo condannato ingiustamente per spionaggio. Nel film la giustizia calpestata in una Francia degli ultimi anni dell’‘800 percorsa da un antisemitismo conclamato, nella casta militare, nello Stato, nella società dei comuni cittadini. E con la vittima di questa ingiustizia spicca nella vicenda l’alta figura dell’intellettuale e della sua funzione nella società, lo scrittore Emile Zola, con il suo famoso e dirompente J’accuse. È Storia, tutto risaputo, si direbbe. Certo, il caso Dreyfus è una pagina di storia in rilievo anche nei manuali scolastici di tutte le latitudini. Ma Polanski lo rievoca con un film di grande bellezza, con un racconta ad alta tensione che sprigiona una potenza magnetica capace di inchiodare lo spettatore come se nulla sapesse della vicenda. Ed è come se fosse una storia di oggi, con i tanti casi di giustizia “non fatta” o fatta male, in modo affrettato, sparsi nel mondo; una giustizia talvolta piegata a ragioni di Stato e finanche di privati, o di operatori di giustizia che si lasciano prendere dalla quotidiana serialità.
E c’è la figura dell’intellettuale, cara a Polanski, che mette il suo talento e la sua fama al servizio della società, una figura che oggi spesso non si manifesta, che preferisce seguire l’aria che tira, che preferisce non andare controvento, Zola, Sciascia, Pasolini… vuoti che oggi pesano. E non ultimo, non si può ignorare la vicenda giudiziaria che insegue il regista da cinquant’anni, mai del tutto chiarita sebbene suggellata da una condanna in America per violenza sessuale su una minorenne.
E proprio su questa vicenda non è mancata una dura polemica innescata dalla presidente della Giuria del festival, l’attrice argentina Lucrezia Martel che si è scaglia contro Polanski dicendo che non lo avrebbe applaudito e non si sarebbe seduta con lui al tavolo di una cena. L’atteggiamento della Martel è stato censurato da tutti, anche dal direttore Barbera, che l’ha invitata a distinguere l’uomo dall’artista, e comunque una condanna non può portare a una “damnatio” eterna. C’è chi ha messo anche in dubbio la capacità della Martel, dopo le sue parole, di presiedere e di far parte della giuria, che dunque deve giudicare anche il film di Polanski, ma dopo una sua smentita, sono stata fraintesa, ha detto, la polemica si è spenta. Meglio così, certo, ma non si può non pensare che in altri tempi e con altri personaggi l’esito avrebbe potuto essere diverso, molto diverso.
Tra i titoli che possono figurare tra i candidati al Leone d’oro c’è Joker, che lungi dall’esser un fumetto, come richiama il suo personaggio, o “fumettone” come spesso si dice in forma spregiativa, è un’opera di forte impatto visivo e di impegno, tra psicologia e riflessione sociale. E’ la storia di un emarginato, un giovane dall’equilibrio precario che vive in miseria con la madre anziana e malata, che tra derisione e frequenti pestaggi cerca di sopravvivere come artista di strada vestito e truccato da Joker, il personaggio del fumetto di Batman. La sua aspirazione è di apparire in un spettacolo comico televisivo e avere i suoi dieci minuti di celebrità, ma anche qui deriso e sfruttato per la sua ingenuità. Sullo sfondo c’è un mondo giovanile, giovane alla deriva come lui, che preme per un posto nel mondo, per una parte nella commedia della vita e lo fa anche con la violenza. Joaquin Phoenix è uno Joker di immedesimazione eccellente.
E ancora, l’altro titolo tra i preferiti, Marriage Story, di Noah Baumbach, che ha uno stile vicino a quello del maestro Woody Allen. Qui due spledidi attori, Scarlett Johansson e Adam Driver, danno vita a una commedia drammatica di una coppia con un figlioletto sempre sul punto di separarsi, tra incomprensioni, prevaricazioni reciproche, diversità caratteriali, tentativi di prevalere.
Pochi titoli, insieme a qualche altro degno di nota, non bastano certo a promuovere a pieni voti questa 76esima edizione del festival, ma riescono comunque a dare il segno di un programma complessivo di valore messo insieme dal direttore Alberto Barbera, senza dimenticare peraltro i numerosi film di grande interesse fuori concorso sparsi nelle 7 sezioni. E insieme dicono della vitalità di un cinema mondiale che riesce riflettere sui malesseri della società nei diversi continenti, non certo per cambiare il mondo ma almeno per raccontarlo.
di Nino Battaglia