K metro 0/Africa ExPress – Tel Aviv – Regna rabbia e collera tra i falasha, gli israeliani di origine etiopica. Due giorni dopo l’uccisione di un giovane ebreo originario del Corno d’Africa, di seconda generazione, migliaia di persone hanno manifestato in tutto il Paese contro razzismo e discriminazione. Solomon Teka, di solo 19 anni, è stato brutalmente
K metro 0/Africa ExPress – Tel Aviv – Regna rabbia e collera tra i falasha, gli israeliani di origine etiopica. Due giorni dopo l’uccisione di un giovane ebreo originario del Corno d’Africa, di seconda generazione, migliaia di persone hanno manifestato in tutto il Paese contro razzismo e discriminazione.
Solomon Teka, di solo 19 anni, è stato brutalmente ammazzato domenica scorsa a Kiryat Haim, vicino a Haifa, da un poliziotto fuori servizio. L’agente si è giustificato dicendo di aver sparato, cercando di sedare una rissa tra due gruppi di giovani. E ha aggiunto che, siccome i ragazzi gli avevano lanciato addosso alcune pietre, avrebbe estratto la sua pistola per difendersi. Diversi testimoni hanno contestato la versione dell’agente, che attualmente si trova agli arresti domiciliari.
Durante la cerimonia funebre il padre del ragazzo ucciso ha sottolineato: “Vogliamo giustizia.”. E subito dopo dopo la cerimonia, migliaia di ebrei di origine etiopica hanno bloccato strade e circonvallazioni strategiche a Haifa, Tel Aviv e altrove in Israele. “Basta con questi omicidi, basta con il razzismo” e hanno incendiato pneumatici e qualche macchina.
Inizialmente la polizia ha evitato qualsiasi intervento, ma con il passare delle ore la rabbia dei manifestanti ha fatto crescere la violenza. Molti agenti e diversi partecipanti alle proteste sono stati feriti. In un comunicato, la polizia ha fatto sapere che sono state arrestate 136 persone in relazione alle manifestazioni di questi giorni. Tutti i fermati sono sospettati di aver attaccato agenti e sono accusati di disturbo alla quiete pubblica e vandalismo.
Negli ultimi giorni tutti i partiti israeliani hanno manifestato solidarietà alla comunità ebrea di origine etiopica e anche il primo ministro Benyamin Netanyahu ha espresso la sua vicinanza: “Li abbracciamo tutti, non sono semplice parole”. Tuttavia, con la solita ipocrisia ha sottolineato: “Ma non tolleriamo che le strade vengano bloccate”.
Alla fine degli anni Settanta, minacciati da carestie e repressione del governo etiope, molti Beta Israel, come preferiscono farsi chiamare, visto il significato negativo che la parola falasha ha assunto nella lingua amarica (emigrato o straniero), passarono in Sudan. Purtroppo, il governo musulmano sudanese fu altrettanto ostile nei loro confronti. Israele prese allora la decisione di trasportarli nel proprio territorio tramite un ponte aereo. Grazie a tre interventi, denominati “operazione Mosè”, “operazione Giosuè” e “operazione Salomone” vennero trasferiti dall’Etiopia novantamila ebrei fino al 1991.
Attualmente nello Stato ebraico vivono cento trentacinquemila falasha, per lo più in miseria, soggetti a discriminazioni di ogni genere, ma ciò che contestano maggiormente è il crescente razzismo. Solo la metà dei giovani ebrei di origine etiopica riesce ad ottenere il diploma, contro il sessantatré per cento del resto della popolazione.
Anche se alcuni di loro hanno raggiunto posizioni importanti nell’esercito, nel pubblico impiego, altri sono diventati politici di rilievo e occupano una poltrona alla Knesset, la loro vita in Israele non è semplice e in linea di massima guadagnano un terzo in meno rispetto alla media.
A tutt’oggi sono ancora oltre 7000 i falasha che si trovano da anni nei campi di transito ad Addis Abeba e Gondar in Etiopia, in attesa di essere trasferiti in Israele. Eppure, con la risoluzione 716 del 2015 il governo israeliano aveva approvato all’unanimità che entro cinque anni, chi era in possesso dei necessari requisiti – il permesso d’entrata è vincolato all’esito positivo del processo di omogeneità con l’ebraismo – avrebbe ottenuto i necessari documenti di viaggio.
I viaggi della speranza sono stati continuamente rinviati per mancanza di fondi e altro. A.Y. Katsof, a capo di Heart of Israel, che ha dedicato la sua vita per riportare “a casa” gli ebrei, ha fatto sapere che i campi di Gondar e Addis Abeba non sono per nulla attrezzati: manca la corrente elettrica, l’acqua, molti di loro lavorano per meno di 1 dollaro al giorno.
Quattordici falasha dovrebbero arrivare in questi giorni nella “terra promessa”. Finora le autorità israeliano non hanno confermato il loro arrivo, anche se il volo è stato regolarmente autorizzato.
di Cornelia I. Toelgyes