K metro 0 – Caracas – Una foto, presente in Rete (opera del reporter Rodrigo Abs, Premio Pulitzer 2013), più di qualsiasi articolo, dà veramente l’idea di quella che è, oggi, la situazione del Venezuela: dei bambini giocano a pallone per strada, in mezzo a biglietti di carta moneta da 50, sparsi per terra, che, peggio che
K metro 0 – Caracas – Una foto, presente in Rete (opera del reporter Rodrigo Abs, Premio Pulitzer 2013), più di qualsiasi articolo, dà veramente l’idea di quella che è, oggi, la situazione del Venezuela: dei bambini giocano a pallone per strada, in mezzo a biglietti di carta moneta da 50, sparsi per terra, che, peggio che nella storica crisi inflazionistica del ’23 nella Repubblica di Weimar, equivalgono quasi a carta straccia. Dieci milioni per cento. Questa è la stima attuale dell’inflazione in Venezuela, almeno secondo i calcoli del Fondo Monetario Internazionale: stima che fa impallidire i livelli raggiunti, a suo tempo, nel Cile del ’74 – ’75, un anno e mezzo dopo il golpe di Pinochet contro Allende.
Tutto questo, in un Paese che, con le sue incredibili risorse energetiche (petrolio, anzitutto), potrebbe essere tra i più ricchi del pianeta. Ora, in un Venezuela che ha le più grandi riserve di greggio al mondo, si assiste anche al paradosso della crisi della benzina: pressoché in tutto il Paese, la gente è costretta a interminabili code ai distributori, che a volte durano giorni interi. Nel Venezuela, infatti, scarseggia il carburante: a causa sia della mancanza di investimenti negli impianti di sfruttamento del petrolio, tra cui le raffinerie (ormai decisamente obsoleti), che delle sanzioni imposte, da gennaio scorso, dagli USA, alcune delle quali hanno colpito l’azienda energetica nazionale Petróleos de Venezuela. Le lobbies internazionali hanno fatto anche pressioni su altri Paesi, come l’India, per convincerli a non comprare più petrolio da Caracas. Il risultato è stato che, ad aprile scorso, la produzione di greggio, in tutti gli impianti del Paese, è scesa, in media, a meno di un terzo di prima: in particolare, la raffineria di Paraguaná, una delle più grandi del mondo, sta operando al 10 per cento delle sue capacità produttive.
Ora, le speranze di una transizione il più possibile non violenta del Venezuela a una vera democrazia e a una situazione di vita quotidiana più normale, con la fine dell’interminabile braccio di ferro tra il Presidente chavista Maduro ( rieletto nel 2018 con elezioni dalla legalità fortemente contestata dagli osservatori internazionali) e il Presidente del Parlamento Juan Guaidò, riconosciuto come Capo dello Stato ad interim da più di 50 Paesi (tra cui la maggior parte dei membri dell’UE), riposano soprattutto sui colloqui in corso attualmente in Norvegia, tra le principali potenze aventi interessi nel Paese, e i rappresentanti di Governo e opposizione. Ma dopo due turni di discussioni, saltato l’accordo che era stato raggiunto inizialmente per un terzo turno, a partire da lunedì 17 giugno alle Isole Barbados, Guaidó – come riferisce l’AP citando dichiarazioni di vari diplomatici – ha stabilito di non tornare al tavolo dei negoziati sinché Maduro non sarà pronto a convocare elezioni presidenziali anticipate.
Il quadro, ora, si è ulteriormente complicato con la presa in considerazione, da parte dei principali Paesi UE, della scelta di imporre anch’essi sanzioni contro il Venezuela, a causa anche dell’ultimo giro di vite contro gli oppositori (con l’arresto del Vicepresidente del Congresso, controllato dall’opposizione, e la privazione dell’immunità parlamentare per altri 18 deputati). Un po’ come nel caso delle sanzioni decise dal 2014, per la crisi in Crimea, contro la Russia (che, tra l’altro, è il principale “sponsor” del regime madurista), queste misure anti-Caracas sono state proposte da un gruppo centrale di cinque nazioni, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna e Paesi Bassi: e prevedono sia forti restrizioni all’import-export col Venezuela che specifiche sanzioni “ad personam” ( come, anzitutto, il divieto di entrare in vari Paesi Ue ) contro Nicolas Maduro e i principali esponenti del suo governo.
Ma su tutto questo non c’è ancora un vero accordo tra i Paesi della UE: vari dei quali – riferiscono, anzitutto, fonti diplomatiche spagnole, citate da AP- esitano a varare queste sanzioni nel timore di far naufragare, così, le trattative in corso in Norvegia. Ogni vera decisione dei membri della UE è rimandata, con tutta probabilità, al Consiglio europeo di fine giugno. “La nostra priorità è non imporre nuove sanzioni. Ma neanche…allentare la pressione sui membri del governo venezuelano”, ha detto un diplomatico spagnolo: aggiungendo che “L’obiettivo principale in questo momento è il dialogo in Norvegia”.
L’ Unione europea, insomma, sul terreno delle possibili sanzioni contro Maduro sta procedendo con molta più cautela degli USA, cercando di bilanciare la pressione sul governo venezuelano con l’opportunità di non far fallire le trattative in corso ad Oslo: il tutto, senza interrompere, nel contempo, la fornitura al Venezuela di un minimo di aiuti umanitari, garantita dal Gruppo di contatto internazionale. Del resto, l’adozione di sanzioni – economiche commerciali, finanziarie, culturali, sportive e “ad personam”, come già avvenne, negli anni ’80, contro il Sudafrica razzista – può avvenire solo col consenso di tutti i Paesi della UE: tra i quali, 4 – cioè Grecia, Italia, Slovacchia e Cipro – non riconoscono Guaidò come Presidente del Venezuela, non essendo stato ancora eletto.
Il passare del tempo, però, irrita l’opposizione venezuelana: che legge tutto questo come indice, invece, di una volontà della UE di concedere ossigeno a Maduro. Proprio venerdì 14 giugno, Lilian Tintori, moglie del celebre oppositore venezuelano Leopoldo Lopez, ha incontrato il neoministro degli Esteri spagnolo Borrell, invitandolo ad “aumentare la pressione sulla crudele dittatura di Nicolas Maduro”, costringendolo a indire nuove elezioni presidenziali sotto adeguato controllo della Comunità internazionale. Tra i Paesi UE, il più acceso sostenitore delle sanzioni contro Caracas è la Gran Bretagna: dove, peraltro, il leader tory Boris Johnson, secondo quanto riportato da alcune agenzie stampa sostiene di aver in mano le prove di un vecchio, lucrosissimo accordo commerciale proprio tra Londra e il governo di Maduro.
di Fabrizio Federici