K metro 0 – Kiev – Il 26 aprile del 1986 una parte della civiltà era divisa in due schieramenti costituiti da una parte dall’America e dal blocco occidentale della NATO, e dall’altra dai paesi del blocco comunista dell’URSS, con in testa la Russia e i paesi dell’Unione sovietica. Un clima di Guerra fredda che,
K metro 0 – Kiev – Il 26 aprile del 1986 una parte della civiltà era divisa in due schieramenti costituiti da una parte dall’America e dal blocco occidentale della NATO, e dall’altra dai paesi del blocco comunista dell’URSS, con in testa la Russia e i paesi dell’Unione sovietica. Un clima di Guerra fredda che, grazie anche agli armamenti nucleari in dotazione alle due superpotenze, non si concretizzò mai in una vera e propria guerra, limitando le conflittualità nei soli campi ideologici, sportivi, politici, scientifici e tecnologici. Una rivalità che, tra l’altro, portò alla terza rivoluzione industriale.
Agli occhi del resto del mondo l’Unione Sovietica appariva come una perfetta macchina che, al prezzo di un controllo quasi totale delle vite dei suoi cittadini, sembrava in grado di generare progresso, tecnologia e benessere per tutti, grazie anche alla presenza di potenti centrali nucleari in grado di provvedere al fabbisogno energetico delle zone popolate. A Chernobyl, nel nord dell’Ucraina, allora parte del Blocco comunista, si trovava in particolare una delle centrali all’epoca più sofisticate e complete, il Complesso V.I.Lenin, provvisto di 4 reattori (la costruzione del quinto verrà poi cancellata nel 1988) in grado da soli di provvedere al 10% del fabbisogno energetico della nazione.
Un’efficienza solo apparente: all’1.23 della notte del 26 aprile, quando nella centrale è in corso una simulazione per testare il livello di funzionamento del sistema di raffreddamento, le barre di uranio si surriscaldano fino a provocare la fusione di uno dei reattori della centrale Lenin, il numero 4, di tipo RBMK-1000 come gli altri tre. Ne nasce un’esplosione con un livello di radiazioni 400 volte superiore a quello della bomba di Hiroshima, il tappo di cemento del reattore 4, di 15 metri di diametro per un peso di mille tonnellate, salta in aria mentre una micidiale miscela di radionuclidi sale fino a 1200 metri di quota.
Un tragico insieme di fatalità, inefficienza, scarsa preparazione del personale notturno, eccessivo senso di sicurezza (tipico dell’Unione sovietica dell’epoca) e una serie di serie carenze nella progettazione della centrale e delle sue misure di sicurezza, provocano quello che probabilmente rimane il disastro più grave del’900. All’epoca nessuno prese troppo sul serio le conseguenze dell’incidente: l’URSS, così credevano tutti, era una macchina troppo perfetta perché non si potesse reagire in maniera immediata ed efficiente a qualsiasi problema. Una facciata di falsa sicurezza talmente importante, per la propaganda comunista dell’epoca, che il governo sovietico non volle nemmeno sospendere i festeggiamenti del primo maggio. Un utopistico sogno sovietico che nei decenni successivi porterà danni molto gravi. Già nei giorni successivi all’incidente 116 mila persone, provenienti da una cinquantina di cittadine, vennero trasferite al di fuori di una linea di 30 km intorno alla centrale, conosciuta ancora oggi come “Zona di esclusione”.
A riportare danni gravissimi fu anche la popolazione di Pripyat, città costruita nel 1970 con lo scopo di ospitare i lavoratori della centrale Lenin e a quel tempo considerata, a ragione, una delle città più moderne e progredite del mondo, dotata di ospedali, alberghi, un teatro, cinema, biblioteche, un centro commerciale, ristoranti, negozi, piscine, impianti sportivi e varie scuole, talmente ben progettati e costruiti che ancora oggi, nonostante l’abbandono, se ne intuisce facilmente l’efficienza. Un benessere tale da portare all’epoca a un tasso di natalità elevato per una cittadina di quelle dimensioni: mille bambini all’anno su una popolazione di circa 50 mila abitanti.
L’incidente di Chernobyl fu il primo, vero nemico dell’immagine perfetta che l’Unione sovietica si era costruita addosso a partire dagli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Qualcuno, nell’incidente, vede persino la miccia che portò negli anni successivi al disfacimento dell’URSS. Oggi, a 33 anni distanza, l’intera zona di esclusione non può essere ripopolata stabilmente, e ci vorranno almeno altrettanti anni prima che si possa tornare a un minimo di normalità. Anche se alcuni anziani, i Samosely, nel corso degli anni e ignorando i divieti del governo ucraino, sono tornati a vivere nelle loro case, spesso a breve distanza dalla centrale Lenin.
Una vita stabile e organizzata oggi la si incontra solo a Slavutych, una cittadina costruita nell’estremo nord dell’Ucraina a 40km di distanza dalla centrale per ospitare i lavoratori che oggi si dedicano al suo smantellamento. Perché anche se i reattori sono ormai stati disattivati (l’ultimo, il numero 3, è stato spento il 15 dicembre del 2000), ci vorranno decenni prima che la centrale Lenin sia completamente chiusa. Ma mai l’Ucraina, l’Europa e il mondo intero, riusciranno a dimenticare quel che successe la notte del 26 aprile 1986.
speciale report di Emiliano Federico Caruso