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Eurozona, languono le esportazioni verso Paesi NAFTA e altri Paesi europei. Perchè?

Eurozona, languono le esportazioni verso Paesi NAFTA e altri Paesi europei. Perchè?

K metro 0 – Bruxelles – Di fronte a una situazione dei consumi stabile, o anche in lieve crescita, e a livelli della produzione industriale anche in miglioramento (vedi anzitutto gli ultimi dati incoraggianti sull’ Italia), è innegabile che – come ricordato, ultimamente, anche nel “Rapporto di primavera” del Fondo Monetario Internazionale – l’Eurozona sta

K metro 0 – Bruxelles – Di fronte a una situazione dei consumi stabile, o anche in lieve crescita, e a livelli della produzione industriale anche in miglioramento (vedi anzitutto gli ultimi dati incoraggianti sull’ Italia), è innegabile che – come ricordato, ultimamente, anche nel “Rapporto di primavera” del Fondo Monetario Internazionale – l’Eurozona sta registrando, almeno da maggio 2017, una consistente caduta dell’export verso le altre aree del mondo. Ma quali Paesi dell’Eurozona sono più toccati da questo fenomeno, quali Paesi destinatari delle loro esportazioni, e per quali cause?

La crisi dell’export, nell’ Eurozona, riguarda anzitutto la Germania, con la Francia storico “motore trainante ” dell’economia centroeuropea. Un Paese come la Germania, da sempre a forte vocazione export (le esportazioni rappresentano il 47% del PIL tedesco), e la cui vocazione manifatturiera, sin da fine ‘800, è fortemente integrata con le economie dei Paesi confinanti (per non dire economicamente satelliti) come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca ed anche, in qualche misura, l’ Italia (specie per il “Triangolo industriale” del Nord e il Triveneto, ma non solo), la diminuzione della produzione industriale causa ovviamente un calo delle esportazioni. Ma al tempo stesso, come in tutte le economie moderne, accade anche l’inverso, col calo dell’export che influisce negativamente sulla stessa produzione manifatturiera, non tutta assorbibile dal solo mercato interno, e danneggia, indirettamente, anche certe filiere manifatturiere. Questo meccanismo di reciproche influenze tra le economie tedesca, italiana e dei Paesi vicini del centroeuropea, iniziato circa tre anni fa ( il 2016 è stato, in complesso, l’anno delle peggiori performance  di quasi tutte le economie europee dalla grave crisi mondiale del 2008-2009), è stato rilevante nel calo generale delle esportazioni dell’ Eurozona, acuitosi, come dicevamo, soprattutto dal maggio 2017. Fenomeno che, a sua volta, ha in gran parte ridimensionato la ripresa che i Paesi UE avevano avuto tra il 2014 e i primi mesi del 2016, grazie ad una delle piu’ classiche manovre economiche “di vecchio stampo”: cioè la svalutazione dell’euro di quasi il 20%, che aveva avvantaggiato le esportazioni UE.

Quattro-cinque anni dopo, la situazione è ben diversa. Dopo una prima fase, da maggio 2014 a febbraio del ’15, quando l’ export dell’ Eurozona aveva raggiunto i massimi picchi, dal ricordato maggio 2017 è sceso, invece, ai peggiori livelli mai registrati sin dalla crisi planetaria del 2008-2009 (al netto dei cicli valutari, in termini, cioè, proprio di volumi delle esportazioni): sino a una leggera ripresa a fine 2018- primi mesi 2019, con un minore trend negativo ( 3% in meno di esportazioni rispetto agli “anni d’oro”). E nei confronti di quali Paesi del mondo?

Un po’ verso tutti, ma anzitutto verso i Paesi del NAFTA: USA in primo luogo. Nella prima metà del 2017, la riforma fiscale subito promossa da Trump aveva portato un aumento del potere d’acquisto del consumatore medio americano, e quindi una crescita dell’import dall’ Europa: poi, dalla seconda metà del ’17 è iniziata l’era delle nuove guerre commerciali tra il gigante statunitense e- impensabilmente accomunati – UE, Cina e Russia. Ma il calo delle esportazioni comunitarie è stato anche verso Canada (con scelte parzialmente corrette, nella seconda metà del 2018, dal “telegenico “premier Trudeau, dissenziente da Trump) e Messico. Vengono poi, come “minori importatori”, i Paesi europei extra UE: Svizzera, Norvegia, Russia e Ucraina, piu’ l’”eterna bussante” Turchia.

Ma mentre per Russia e Ucraina va chiamato in causa il riapprezzamento delle loro valute rispetto all’ euro, per la Turchia si è trattato di un fenomeno opposto: cioè la forte svalutazione della lira (addirittura del 64% in 8 mesi), decisa da Erdogan per potenziare le esportazioni turche soprattutto verso Russia e Paesi dell’Asia e dell’area atlantica (in base anche a precise valutazioni politiche).

Mentre tutte queste contrazioni dell’export dell’Eurozona sono state solo in piccola parte compensate. – sempre nel 2017- 2018 – dai modesti incrementi nei confronti di Sudamerica, Africa e Oceania (aree verso cui l’export europeo è da sempre limitato), e dal limitato aumento verso la Cina (i cui “fasti commerciali” con vari Paesi UE dovevano ancora venire), il “colpo di grazia” è stato dato proprio da vari Paesi appartenenti alla stessa UE. Non solo dai satelliti economici della Germania di frau Merkel (solo in parte “colpevoli” perché, a loro volta, già danneggiati dalle difficoltà della stessa economia tedesca): ma anche dal Regno Unito, da sempre il partner europeo di maggior peso (40% circa) nelle esportazioni tedesche. Già prima della Brexit, infatti, nel 2016 le difficoltà economiche generali del Paese avevano spinto i conservatori che guidavano il governo britannico a ripetere inevitabilmente la scelta seguita (e, a suo tempo, fortemente criticata), esattamente 50 anni prima, nell’autunno del 1966, dai laburisti di Harold Wilson: cioè la svalutazione (inaccettabile per la mentalità dell’inglese medio) della sterlina. Questo, poi, contribuisce anche a spiegare la linea morbida scelta ultimamente (nell’ evidente speranza di recuperare bene le importazioni britanniche) da Angela Merkel nei confronti della richiesta di Theresa May di spostare il più possibile in là la data effettiva della Brexit.

Per concludere, se è vero che questi ultimi fattori di crisi per l’export dell’Eurozona, cioè i “forfait” di Turchia e Regno Unito, sono abbastanza risolvibili da scelte diverse dei loro governanti, le prospettive generali non sono molto incoraggianti. Incombe parecchio la minaccia di ulteriori guerre commerciali periodicamente agitata da Trump ( che, tra l’altro, avvicinandosi il momento delle nuove elezioni presidenziali, sta facendo proprio della politica commerciale uno dei presunti titoli di merito da agitare sotto il naso degli elettori) .Anche sul piano dei dazi nei confronti dell’export – soprattutto da UE e Cina- di determinate categorie di beni , come le auto e i trattori, che, pur non essendo propriamente di consumo primario, sono comunque essenziali per la vita economica e civile. E’ evidente, allora, fermo restando che – come sottolineato, giorni fa, dalla Direttrice del FMI, Christine Lagarde, nella conferenza stampa di primavera del Fondo e della Banca Mondiale – non è proprio il caso che la UE e gli altri Paesi si autoinfliggano la distruttiva ferita di altre guerre commerciali, una forte crescita economica dell’ Europa può essere stimolata solo dallo sviluppo del mercato interno e dalla ripresa degli investimenti in infrastrutture, servizi di avviamento al lavoro, formazione e  aggiornamento professionale. Questa sarà, riteniamo, una delle sfide essenziali per chi governerà l’Europa dopo le elezioni del maggio prossimo.

 

di Fabrizio Federici

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