K metro 0 – Washington – Donald Trump non avrebbe tradito gli Usa. Nella lettera inviata dal ministro della Giustizia, William Barr, al Congresso per presentare in via sintetica le conclusioni del rapporto Mueller, si legge: “Il procuratore speciale non ha rinvenuto che, durante la campagna elettorale di Trump, nessun associato con questa abbia cospirato
K metro 0 – Washington – Donald Trump non avrebbe tradito gli Usa. Nella lettera inviata dal ministro della Giustizia, William Barr, al Congresso per presentare in via sintetica le conclusioni del rapporto Mueller, si legge: “Il procuratore speciale non ha rinvenuto che, durante la campagna elettorale di Trump, nessun associato con questa abbia cospirato o si sia coordinato con i numerosi tentativi del governo, nonostante le varie offerte giunte da individui affiliati con la Russia per sostenere la campagna di Trump”.
Dunque, Trump è stato assolto dalla più infamante accusa, quella di tradimento del suo Paese. In merito al potenziale reato di ostacolo alla giustizia, il rapporto non prende invece una chiara posizione. Il reato in ogni caso sarebbe stato comunque funzionale all’esistenza del reato di collusione. Il ministro della Giustizia Barr ha anche scritto: “Per ogni rilevante azione investigata il rapporto Mueller presenta evidenze che potrebbero portare a una conclusione o a un’altra (a favore o contro l’ostruzione) e lascia così non risolte quelle che Mueller considera ‘complesse questioni legali’. Il consigliere speciale Robert Mueller, sostiene che comunque se il rapporto non conclude che il presidente ha commesso un crimine, d’altra parte non lo esonera dall’averlo fatto”.
Tuttavia, il ministro Barr dice anche che sia lui e sia il suo vice, Rod Roseinstein, hanno ritenuto: “Le evidenze raccolte durante l’inchiesta di Mueller non siano sufficienti a stabilire con certezza che il Presidente abbia commesso il crimine di ostruzione della giustizia”.
Le ultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono state tra le più avvincenti, ma anche controverse e senza esclusione di colpi, nella storia recente del paese. Alla fine, Donald Trump, contro ogni pronostico, è riuscito a sconfiggere la grande favorita Hillary Clinton.
Un successo quello del tycoon che però, fin dall’inizio della sua campagna elettorale, è stato accompagnato da accuse e supposizioni di aiuti da parte della Russia di Vladimir Putin per favorire la sua vittoria.
Una serie di avvenimenti e di sospetti che a inizio del 2017 sono sfociate nell’avvio da parte dell’Fbi di un’indagine per fare chiarezza su questi rapporti, con tutta la vicenda che, secondo la tradizione americana, ha preso il nome di Russiagate.
Per capire meglio cos’è il Russiagate bisogna fare un piccolo passo indietro. Nella altrettanto dura competizione delle primarie in seno ai repubblicani e ai democratici, Donald Trump era di sicuro il candidato più controverso e di rottura.
Una figura talmente scomoda che anche il Partito Repubblicano stesso non vedeva di buon occhio una possibile sua candidatura. Favorito anche dall’inconsistenza degli avversari, Donald Trump, alla fine, è riuscito a vincere le primarie ed essere così il candidato conservatore per la Casa Bianca.
Una avvisaglia sul futuro Russiagate è arrivata nel marzo 2016, quando Trump ha nominato Paul Manafort manager della sua campagna elettorale e Carter Page suo consulente. Entrambi sono stati considerati come molto vicini alla Russia.
Il primo colpo di scena è avvenuto ad agosto 2016, quando Paul Manafort è costretto a dimettersi dal suo ruolo nella campagna elettorale di Trump accusato di aver ricevuto dei finanziamenti provenienti dalla Russia.
Da quel momento è cominciato ad aleggiare il sospetto che ci sia stato un disegno preciso di Vladimir Putin per cercare di favorire la vittoria di Donald Trump, vista la poca simpatia del presidente russo nei confronti di Hillary Clinton e dell’amministrazione Obama in generale per aver decretato le sanzioni verso la Russia sulla questione dell’Ucraina.
A pochi giorni dal voto presidenziale, alcuni hacker russi hanno pubblicato i contenuti di alcune mail dell’entourage democratico, con Trump che subito attacca la sua avversaria accusandola di essere una donna vicina ai poteri forti.
Un fatto grave questo che, secondo una intervista rilasciata da Hillary Clinton, avrebbe influito in maniera decisiva, assieme all’operato di James Comey sull’esito finale delle elezioni.
Donald Trump quindi, ha vinto a sorpresa le elezioni, nominando il generale dell’esercito in pensione, Michael Flynn, come consigliere per la sicurezza nazionale e Jeff Sessions come ministro della Giustizia.
Al vertice dell’Fbi è stato confermato il fervente repubblicano James Comey, che era stato nominato da Obama ma che in campagna elettorale aveva rispolverato una vecchia inchiesta contro la famiglia Clinton, mandando su tutte le furie Hillary.
Poi, ad inizio anno, dalla figura di Michael Flynn è nato il Russiagate. A colloquio con il vicepresidente Mike Pence, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale ha omesso di dichiarare di aver parlato delle sanzioni inflitte a Mosca in diversi incontri tenuti con l’ambasciatore russo Sergey Kislyak.
Un particolare che è costato caro a Flynn che ha perso l’incarico e dopo è iniziata l’indagine dell’Fbi e della commissione del Congresso, che vorrebbero fare piena luce sui rapporti tra Trump e il suo entourage con la Russia.
Dopo il caso Flynn, è arrivato anche il rapporto di un ex agente britannico che ha parlato di un dossier realizzato dalla Russia, molto tempo prima su Donald Trump, allo scopo di ricattare il tycoon, visti i suoi contenuti imbarazzanti: nelle pagine in questione si parla di giochi sessuali e di affari poco limpidi intrattenuti a Mosca.
Passando i giorni, a finire nell’occhio del ciclone è stato il ministro della Giustizia, Jeff Sessions, che al Senato ha negato di aver mai incontrato l’ambasciatore russo Kislyak mentre altri fonti confermerebbero l’accaduto.
In mezzo c’è stata sempre la figura di Michael Flynn, che in un primo momento si era detto disponibile a testimoniare in cambio dell’immunità, salvo poi, a trincerarsi dietro un prolungato silenzio.
Mentre le indagini procedono, a sorpresa, Donald Trump ha deciso di licenziare James Comey che con la sua Fbi stava proprio indagando sul Russiagate. Per l’opinione pubblica il gesto è stato interpretato come un chiaro tentativo di far naufragare l’attività investigativa.
Sempre più messo alle corde, Donald Trump ha ammesso di aver condiviso con il ministro degli Esteri russo Lavrov delle informazioni riservate inerenti al tema terrorismo.
La dichiarazione di Trump ha spiazzato lo stesso staff del Presidente, che fin dalle prime indiscrezioni aveva sempre negato l’accaduto. Come se non bastasse, ha parlato anche James Comey, l’ex capo dell’Fbi licenziato da Trump. In un memorandum è risultato che il Presidente gli avrebbe chiesto, in un incontro svolto a febbraio, di insabbiare il Russiagate.
In particolare, secondo Comey ci fu una richiesta specifica di Donald Trump per far calare il silenzio sull’indagine riguardante Flynn, che sempre più sembrerebbe il vero elemento chiave di questa vicenda.
Oltre ai collaboratori, Trump si è dovuto guardare anche dai problemi in famiglia. Jared Kushner, marito dell’amata figlia Ivanka, sarebbe stato anche lui indagato in questa vicenda riguardante i rapporti con il Cremlino.
Ad inguaiare però Trump è stata la testimonianza dell’ex capo dell’Fbi in audizione al Senato americano. James Comey, infatti, ha dichiarato come non ci siano dubbi sul fatto che la Russia abbia interferito nelle elezioni Usa.
Inoltre, Comey ha aggiunto che il Presidente abbia mentito sia su di lui che sull’intera Fbi. A quel punto, i rischi per Donald Trump di essere messo sotto impeachment sono aumentati in maniera considerevole.
Proprio la deposizione di Comey sarebbe potuta costare molto cara al tycoon. Mentre Trump stava festeggiando il compleanno per i suoi 71 anni, il Washington Post pubblicava uno scoop dove si dava la notizia che il Presidente fosse ufficialmente indagato per la vicenda Russiagate.
Una fuga di notizie ritenuta scandalosa da parte degli ambienti vicini alla Casa Bianca, visto che la rivelazione giornalistica ha ipotizzato che Donald Trump sarebbe indagato per ostruzione alla giustizia.
Al centro ci sarebbe stato il licenziamento di James Comey e le sue dichiarazioni al Senato. Il Presidente ha bollato le parole dell’ex capo dell’Fbi come falsità, ma il rischio di impeachment a questo punto per Trump è diventato sempre più alto.
Alla fine, però anche da parte di Donald Trump è arrivata la conferma della notizia dell’indagine su di lui. Naturalmente, la notizia è stata data dal Presidente a modo suo, ovvero tramite Twitter.
A finire nell’occhio del ciclone per il Russiagate c’è stato anche Donald Trump Jr., figlio del Presidente. Dopo una serie di anticipazioni da parte della stampa, il rampollo ha ammesso un incontro con un’avvocatessa vicina a Mosca prima delle elezioni, pubblicando anche il contenuto di alcune mail a riguardo.
In sostanza, il figlio di Trump, nel giugno 2016, avrebbe ricevuto offerte per avere del materiale che potesse infangare la figura di Hillary Clinton. All’epoca la sfidante del padre alle elezioni reagì con entusiasmo: “I love it”.
Donald Trump Jr. ha poi detto di non aver mai fatto parola al padre dell’incontro con l’avvocatessa e dello scambio di mail con un suo intermediario, fatto questo ribadito anche dal Presidente.
Intanto, al Congresso è arrivato il primo atto formale di richiesta di impeachment da parte di un deputato democratico, un primo passo verso una lunga e complessa strada che avrebbe potuto portare alle dimissioni o alla condanna di Trump.
Un altro passo è stata la selezione, da parte del procuratore speciale Robert Mueller, di un Grand Jury a Washington. Gli esperti dissero che questo atto poteva essere il sintomo di una accelerazione nell’indagine, che a breve avrebbe potuto portare a nuovi sviluppi.
Tirata in ballo nelle indagini, anche Facebook che con le proprie ammissioni avrebbe alimentato i sospetti sulla veridicità di questo Russiagate. La società di Zuckerberg ha reso noto che, già a partire dal 2015, quando Trump annunciò la propria candidatura, i famigerati falsi account riconducibili alla Russia hanno speso in pubblicità sul social network circa 100.000 dollari.
Dopo Facebook è stata la volta di Twitter. Anche l’altro famoso social ha ammesso che, nel 2016, circa duecento account riconducibili a società russe, ora tutti sospesi, avrebbero speso in pubblicità 274.000 dollari.
Questa dei ‘troll’ russi che avrebbero favorito l’attuale Presidente durante la campagna elettorale, cercando di screditare anche con false accuse gli avversari politici, è stato uno dei primi sentori che poi hanno portato all’apertura dell’indagine.
Ad aumentare i sospetti, nel marzo 2018, è stato poi lo scoppio del caso di Cambridge Analytica, una società britannica che negli anni ha raccolto dati su Facebook per costruire profili dettagliati di milioni di elettori americani.
Anche se questo filone di indagine è soltanto agli albori, sembrerebbe che Steve Bannon, l’ex stratega della campagna elettorale del Presidente, avesse supervisionato questo lavoro di Cambridge Analytica.
Per Trump, sembrava che le cose stessero andando da male in peggio. Il suo ex capo della campagna elettorale, Paul Manafort, si è infatti costituito ai Federali accusato di cospirazione per una vicenda di fondi neri. Per lui ci sarebbero ben 32 capi d’accusa.
Mentre, sembrerebbe che i post pubblicati da Mosca su Facebook sotto il periodo elettorale siano stati letti da 126 milioni di americani. Un ex collaboratore, George Papadopoulos, ha ammesso di aver collaborato con i russi per raccogliere materiale contro i Democratici.
Nonostante le sempre maggiori prove e le ammissioni, il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato di credere a Vladimir Putin quando dice che la Russia è estranea alla vicenda. Parole queste che hanno scatenato un vespaio di polemiche con il tycoon che è stato costretto a una immediata e repentina correzione parlando anche di fiducia nell’operato della CIA.
In seguito, in un’audizione pubblica alla Camera americana l’ex avvocato di Trump, Michael Cohen, ha definito il Presidente “un truffatore”, ammettendo di aver pagato con propri fondi, su richiesta del tycoon, l’importo di 130.000 dollari ad una pornostar per far tacere la sua storia con l’inquilino della Casa Bianca.
Alla fine, Michael Flynn è crollato. L’ex consigliere alla Sicurezza Nazionale avrebbe confessato in tribunale di aver mentito all’Fbi riguardo i suoi rapporti e contatti con l’ambasciatore russo Kislyak.
Flynn sarebbe stato incriminato, ma l’aspetto più delicato è stato il capire se Donald Trump sapesse o meno dell’attivismo con la Russia da parte dell’ex generale. Dunque, la situazione per il Presidente sarebbe potuta diventare molto difficile.
Secondo delle indiscrezioni, dopo la confessione, Michael Flynn sarebbe pronto anche a collaborare con il procuratore speciale Muller, tirando in ballo il tycoon come ‘mandante’ dei suoi contatti con Mosca.
Il grande obiettivo di Muller, però, sarebbe rimasto sempre quello di poter interrogare il Presidente: grazie ai suoi avvocati, Trump è riuscito sempre a evitare di trovarsi di fronte agli investigatori federali, ma adesso il procuratore speciale potrebbe chiedere un mandato per portare il tycoon davanti ad un grand jury.
Il puzzle del Russiagate avrebbe aggiunto ogni giorno un nuovo pezzo, con Donald Trump, ormai sempre più impopolare con le probabilità in aumento per andare incontro all’impeachment.
Tra indiscrezioni, polemiche, ammissioni e smentite, l’indagine comunque è andata avanti tanto che è iniziato il processo per il primo dei personaggi coinvolti in questo Russiagate.
Sul banco degli imputati, in Virginia, c’è andato Paul Manfort, l’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump, uno degli elementi chiave dell’inchiesta. L’accusa è stata quella di evasione fiscale e truffa.
Secondo l’accusa, Manfort avrebbe guadagnato circa 60 milioni di dollari lavorando in Ucraina, ma avrebbe nascosto al Fisco gran parte degli introiti. Se dovesse essere ritenuto colpevole, rischierebbe anche diversi decenni di carcere.
La sentenza ha giudicato Manfort colpevole di otto capi di imputazione, condannandolo a 3 anni e 11 mesi di reclusione: una vittoria per il procuratore Muller che così avrebbe avuto un primo successo per il suo filone accusatorio.
Per Trump però i guai arriverebbero anche da altri fronti, visto che il suo ex avvocato, Michael Cohen, ha patteggiato in merito al pagamento della ex pornostar Stormy Daniels, ammettendo quindi che la somma venne versata su richiesta del tycoon allora candidato violando così la legge sul finanziamento delle campagne elettorali.
Tuttavia, per gli sviluppi sul Russiagate, molto sarebbe potuto emergere riguardo i rapporti intrattenuti da Flynn con la Russia.
Se dalle testimonianze o indagini, sarebbe emerso un coinvolgimento diretto e colpevole di Trump nella vicenda, il presidente avrebbe potuto rischiare molto seriamente di finire sotto impeachment.
Adesso, dopo le Midterm Elections, con i Democratici che hanno conquistato la maggioranza alla Camera (il Senato invece è rimasto in mano dei Repubblicani), i dem avrebbero potuto presentare una richiesta di impeachment.
Una prospettiva preoccupante, tanto che Donald Trump ha subito messo le mani avanti dichiarando: “Se i Democratici pensano di sprecare il denaro dei contribuenti per portare avanti inchieste alla Camera contro di noi, allora anche noi saremo costretti a considerare di indagarli al Senato per tutte le fughe di informazioni classificate”.
In sostanza, l’impeachment sarebbe stato un rinvio a giudizio di un pubblico ufficiale nel caso in cui si possa ritenere che abbia commesso comportamenti illeciti nell’adempimento ed esercizio delle proprie funzioni.
In tutta la storia degli Stati Uniti, finora solo due presidenti sono stati salvati dalla procedura di impeachment: Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, quest’ultimo a seguito della nota vicenda a sfondo sessuale che per mesi ha riempito i giornali non solo di politica ma anche di gossip di tutto il mondo.
Tutti gli altri Presidenti invece si sono sempre dimessi prima, come fece, per esempio, Richard Nixon quando fu coinvolto nel 1974 nel famigerato caso del Watergate.
Invece, Donald Trump non finisce mai di stupire. Alla fine, è stato assolto per insufficienza di prove, e quindi potrà continuare il suo mandato presidenziale. Ma un altro giudizio inappellabile lo attende: è quello degli elettori americani nelle prossime elezioni presidenziali.
di Salvatore Rondello