K metro 0 – Berlino – Ferve il dibattito, in Germania, sulle prospettive dell’economia per il 2019. Prospettive non troppo rosee, considerando che, pur con un’economia in crescita dal 2009, il PIL dal 2017 è sceso da 2,2% ad 1,5% nel 2018. E, per l’anno da poco iniziato, il Governo si è mantenuto, prudentemente, su
K metro 0 – Berlino – Ferve il dibattito, in Germania, sulle prospettive dell’economia per il 2019. Prospettive non troppo rosee, considerando che, pur con un’economia in crescita dal 2009, il PIL dal 2017 è sceso da 2,2% ad 1,5% nel 2018. E, per l’anno da poco iniziato, il Governo si è mantenuto, prudentemente, su una stima dell’1% appena. Ma da cosa dipende il rallentamento della crescita economica tedesca?
In queste settimane la stampa, si è soffermata anzitutto su fattori contingenti, che hanno però un peso non trascurabile. Come le difficoltà del settore automobilistico, da sempre una delle “locomotive” dell’economia tedesca, frenato dalla lentezza e complessità delle nuove procedure di immatricolazione e certificazione delle auto dettate dai nuovi standard anti-inquinamento europei (standard nati, a loro volta, dall’esigenza di impedire il ripetersi di scandali come il “Dieselgate”, che ha minato fortemente la credibilità di un’azienda storica come la Volkswagen), che rallentano produzione e commercializzazione. Poi, la straordinaria siccità dell’estate 2018, che ha ostacolato il trasporto delle merci per via fluviale.
Il peso dei fattori internazionali, dai protezionismi alla Brexit
Sul piano internazionale, pesano i crescenti protezionismi europei, contro i quali, ricordando le dure lezioni della storia anni ’30, si è più volte scagliata nei mesi scorsi, in sede comunitaria, Frau Merkel, e specialmente la “guerra dei dazi” Usa-Cina, ancora ben lontana dal concludersi. Stati Uniti e Cina popolare, infatti, specie dal Secondo dopoguerra, sono due mercati fondamentali per l’esportazione tedesca: e tutta questa situazione rende incerte le prospettive di investimento sia degli imprenditori teutonici nei 2 Paesi che dei possibili investitori americani e cinesi in Germania.
Non è da sottovalutare, infine, ricordano gli esperti dell’Iw di Colonia, il rischio – sempre più incombente, con le incertezze della politica britannica -. di una “Hard Brexit”, senza alcun accordo tra Londra e Bruxelles. Che, al di là delle forti capacità di adattamento del sistema economico (da almeno un anno, i principali gruppi bancari, finanziari e assicurativi operanti in Gran Bretagna si stanno preparando a spostarsi sul continente, pur senza interrompere i rapporti con Oltremanica), potrebbe comunque creare turbolenze sui mercati finanziari. E va considerato anche il ritorno della crisi dei debiti pubblici in alcuni Paesi europei (Grecia, Spagna, Italia e anche Francia, nonostante il “trattamento di favore” ottenuto da Macron nelle sue perorazioni presso la UE): che può rallentare ancora la già fiacca dinamica europea.
Al cuore del problema: i meccanismi pulsanti dell’economia tedesca
“Al di là di questi fattori speciali”, comunque, “l’economia tedesca si sta ancora sviluppando solidamente”, ribadisce Claus Michelsen, capo del Dipartimento sulla congiuntura del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (Diw) di Berlino, l’istituto tedesco per la ricerca economica. I deludenti risultati dell’industria tedesca nel 2018, sostiene il Diw, dovrebbero tra poco ribaltarsi col superamento di quei fattori straordinari che li avevano determinati. Tanto più che “la domanda interna rimarrà dinamica”, anche in considerazione della continua crescita dei posti di lavoro.
Nel complesso, però, vi è quanto basti perché tra gli operatori economici serpeggino prudenza e inquietudini. Gli imprenditori si mostrano attendisti perché l’attuale situazione geopolitica ed economica non invita a investire: inficiando così non solo gli impulsi congiunturali di breve termine, ma anche il potenziale a medio termine di molti Paesi, ormai tutti collegati dai circuiti economici e geopolitici internazionali. Secondo il sondaggio compiuto dall’Ifo di Monaco, altro importante “Think tank” economico, tra gli industriali tedeschi, la convinzione degli imprenditori di un 2019 in rallentamento rispetto al passato è considerevolmente diffusa.
Ma eccoci allora al cuore della questione: la salute dei meccanismi pulsanti dell’economia tedesca. Sempre l’Ifo, infatti, avverte che le potenzialità di ulteriore sviluppo dell’occupazione potrebbero essere pregiudicate dalla sempre più evidente mancanza di manodopera.
Come Italia e Inghilterra, infatti, anche la Germania da tempo avverte i sintomi di due tipiche “malattie economiche del benessere”: la carenza, almeno in alcuni settori, di operai, tecnici e dirigenti specializzati (nonostante la massa di giovani in cerca di lavoro, molti dei quali altamente formati) e quella di forza lavoro semplice, compresi anche artigiani che svolgono importanti funzioni sociali (dai panettieri agli idraulici).
Le carenze del settore pubblico e le liti tra i partiti di governo
Per non parlare – anche qui come in Italia, in presenza di un personale pubblico solo apparentemente ipertrofico, in realtà mal distribuito – della carenza di lavoratori nei settori pubblici, dall’amministrazione alla scuola, dai trasporti alla sanità. Frutto, questo, anche delle politiche “neothatcheriane” di risparmio seguite nell’ultimo decennio, e del ridimensionamento del Welfare tedesco (sin troppo generoso) che il governo del socialdemocratico Gerhard Schroeder, ai primi del Duemila, si trovò costretto ad attuare. Che hanno riportato in equilibrio il bilancio federale, ma a scapito di istruzione, formazione e consolidamento di altri importanti settori pubblici. La situazione è difficile in molti Länder, come anzitutto Berlino. Mentre sui posti di lavoro vacanti nell’industria, anche qualificata, nelle attività artigianali e nei servizi pubblici si lanciano, da sempre, turchi (da più di un secolo “parte integrante” del paesaggio economico e sociale tedesco) e altri immigrati extracomunitari: con l’accendersi, in varie zone del Paese, dei prevedibili conflitti sociali. “Nihil sub sole novi”.
A rendere incerte le prospettive dell’economia germanica, infine, concorrono – come, del resto, un po’ in tutte le democrazie industriali -i contrasti tra le forze politiche.
L’Spd, in linea con la grande tradizione socialdemocratica, chiede di utilizzare le floride casse dello Stato per un grande piano di investimenti pubblici in settori ritenuti decisivi per un’economia moderna, come infrastrutture e digitale. Mentre la Cdu, come molti dei partiti inquadrati, a Strasburgo, nel Partito Popolare Europeo, guardando, invece, ad esempi come l’Irlanda guidata dai conservatori degli anni ’90- primi Duemila, punta più su ipotesi di alleggerimenti fiscali, sino addirittura al 25%, alle imprese (Olaf Scholz, ministro socialdemocratico delle Finanze, all’opposto vorrebbe alzare l’aliquota dell’imposta marginale di tre punti, al 45%). È inevitabile un compromesso, con una continua mediazione, tra le due forze di governo: obbligate – come ai tempi di Willy Brandt – alla coabitazione nella “Grosse koalition”. Ma una situazione del genere – proprio come, appunto, nel 1969- ’72 – può consentire di superare periodi di emergenza: ma non certo di varare vere politiche di sviluppo a medio e lungo termine, capaci di far decollare un’economia comunque moderna e sviluppata come quella tedesca.
di Fabrizio Federici