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Spagna: Il punto sul caso Catalogna, Puigdemont da Bruxelles prosegue la sua battaglia, quali saranno le prossime mosse di Madrid?

Spagna: Il punto sul caso Catalogna, Puigdemont da Bruxelles prosegue la sua battaglia, quali saranno le prossime mosse di Madrid?

K metro 0 – Madrid – Dopo la chiusura del processo per la richiesta di estradizione dalla Germania avanzata dalle autorità spagnole (richiesta autorizzata dalla magistratura tedesca solo per il reato di malversazione, ma non di sedizione politica), il leader separatista catalano Carles Puigdemont,  tornato a Bruxelles (dov’era riparato, fuggendo appunto dalla Spagna , l’

K metro 0 – Madrid – Dopo la chiusura del processo per la richiesta di estradizione dalla Germania avanzata dalle autorità spagnole (richiesta autorizzata dalla magistratura tedesca solo per il reato di malversazione, ma non di sedizione politica), il leader separatista catalano Carles Puigdemont,  tornato a Bruxelles (dov’era riparato, fuggendo appunto dalla Spagna , l’ inverno scorso, finendo poi arrestato, a fine marzo, per mandato di cattura europeo emesso dal Governo iberico,  al confine tra Danimarca e Germania), ha annunciato  di voler proseguire la battaglia per l’indipendenza. “Ho un mandato dal popolo che intendo rispettare ed esercitare”, ha detto l’ex-presidente catalano già nella prima conferenza stampa tenuta a Berlino dopo il suo rilascio: precisando di voler proseguire “a lavorare su quanto è stato messo in marcia il primo ottobre”, e di trovare quantomeno strano che il Governo spagnolo da tempo parli con l’ETA (col quale sono in corso da anni trattative semi-segrete) e non con i catalani. Rispetto, poi, a presunti legami tra i separatisti catalani e la Russia, Puigdemont ha detto che “ci sono state un mucchio di Fake news sui rapporti tra Russia e Catalogna. Non c’è ancora nessun segno concreto che lo provi”.

“Continuiamo a pensare che il modo migliore sia quello di raggiungere accordi, ma ciò non significa che rinunciamo alla nostra sovranità”, ha detto poi l’ex presidente nella successiva conferenza stampa tenuta a Bruxelles a fine luglio: aggiungendo di sperare “che il presidente Sanchez (il premier socialista spagnolo, successo a giugno scorso al popolare Mariano Rajoy, il cui governo era stato travolto dagli scandali, N.d:R.) approfitti delle sue vacanze per proporre una soluzione per la Catalogna, perché il suo periodo di grazia sta finendo”.

In Spagna, Puigdemont rischia almeno 25 anni di reclusione per aver organizzato il referendum indipendentista del 1° ottobre scorso, e aver proclamato poi l’indipendenza della Catalogna. Violando così la Costituzione spagnola del 1978: dove l’articolo 2 parla di “ indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli”, riconoscendo però, al tempo stesso  “il diritto alla autonomia delle nazionalità e regioni che la compongono” (l’ambiguità della formulazione è evidente nel confronto, ad esempio, con l’art. 5 della Costituzione italiana, “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, e “…adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”). Mentre importante è stato, mesi fa, anche il parere dell’ONU: che, senza entrare nel merito della questione dell’indipendenza catalana, ha dichiarato ammissibile il ricorso contro la lesione dei suoi diritti politici presentato dallo stesso Puigdemont. Ma oggi, a quasi un anno dal referendum del 1° ottobre, cosa vogliono veramente fare i catalani? Che impatto ha avuto la vicenda sulla loro vita quotidiana? Come si muoverà Madrid?  E qual è la posizione dell’Unione Europea?

Il caso della Catalogna, regione della penisola iberica da sempre economicamente avanzata (esprimente il 20% del PIL nazionale), e al tempo stesso con forti spinte all’ indipendenza da Madrid (dopo decenni di ferreo centralismo filocastigliano, la questione ebbe un ruolo non secondario nell’ accelerare, a metà anni ’70, la fine del regime franchista dopo la morte del Caudillo), è emblematico delle complesse situazioni delle tante “Piccole patrie” europee. Pur riconoscendo pienamente il diritto di popoli, o di consistenti minoranze (sul piano soprattutto etnico-linguistico), viventi in un innaturale connubio con un popolo diverso, ad acquisire l’indipendenza, il diritto internazionale non prevede, neanche per quelle organizzazioni con un minimo di potere sovranazionale (come la stessa ONU), il potere d’ obbligare uno Stato a riconoscere il diritto d’ una sua “parte” alla secessione. Su questa stessa linea è l’Unione Europea: le cui leggi fondamentali, dai Trattati di Roma in poi, non la autorizzano minimamente ad assecondare – né ostacolare – fenomeni di questo tipo, che devono essere affrontati solo dai rispettivi Governi nazionali. «Non commentiamo gli ultimi sviluppi sulla vicenda Puigdemont e sulla Catalogna, la nostra posizione resta sempre la stessa», ha affermato ultimamente un portavoce della Commissione UE.

Dal 2010 si è inasprito il conflitto tra Catalogna e Governo centrale: quando Madrid, dopo aver inizialmente accettato il nuovo Statuto regionale proposto da Barcellona (che ampliava ulteriormente l’autonomia catalana), su ricorso del governo conservatore di Rajoy ci ha ripensato. Sono iniziate, così, le grandi dimostrazioni di piazza dei catalani, appoggiate da gran parte dei partiti presenti nell’Assemblea Regionale: un malcontento ampliato – come nell’ Argentina di fine anni ’90 – anche dalla crisi economica post 2008, con la disoccupazione giunta, in tutta la Spagna, al 25%. Dopo un primo referendum sul distacco da Madrid nel 2014, nell’ autunno scorso il governo regionale catalano, guidato proprio da Puigdemont, ha premuto sull’acceleratore, con la nuova consultazione popolare: seguita dall’azzeramento del Governo locale da parte di Madrid, e da nuove elezioni regionali imposte, a dicembre, dall’allora premier Rajoy. Ma nel nuovo Parlamento catalano, i partiti indipendentisti si sono confermati come maggioranza, eleggendo poi un governo retto da Joaquim Torra, fedelissimo di Puidgemont.

È questo governo, entrato pienamente in carica da pochi mesi, che deve decidere, ora, cosa fare. Se insistere sulla linea di Puigdemont o, invece, optare per un compromesso con Madrid, eleggendo un presidente più moderato e seguendo una linea come quella attuale della Scozia (cioè temporeggiare in attesa, magari, d’ un altro, risolutivo referendum).

La scelta indipendentista, in Catalogna, nel primo decennio del Duemila raccoglieva circa il 20% dei consensi: dall’esplodere della crisi finanziaria spagnola, una decina d’anni fa, è iniziata ad aumentare, salendo addirittura a più del 90% al referendum dell’ottobre scorso. Oggi è appoggiata realmente solo dal 40% della popolazione (che conta 7,5 milioni di persone): percentuale che alle elezioni di dicembre, però, s’è tradotta nella maggioranza assoluta per effetto anche della reazione all’ autoritarismo di Madrid (giunto, a ottobre scorso, a intervenire con la forza contro gli elettori pacificamente in fila davanti alle urne). Ma nel Parlamento regionale la maggioranza relativa è andata al partito, di ispirazione liberale, “Ciudadanos” (sostanzialmente omologo spagnolo dell’”En marche” di Macron); e, soprattutto, i 3 partiti indipendentisti sono fortemente divisi tra loro. Si va dai conservatori di “Junts por Catalunya”, eredi dello storico leader Jordi Pujol, con a capo Puigdemont (paragonabili,”mutatis mutandis”, all’SVP altoatesina) alla Sinistra Repubblicana, storico partito socialdemocratico e nazionalista, sino alla CUP, Candidatura di Unità Popolare (riecheggiante la celebre “Unidad Popular” di Allende), blocco fortemente di sinistra anticapitalista. Il futuro di questa essenziale regione europea – e, di riflesso, di tutta la Spagna – è davvero nebuloso.

Intanto, i numeri dell’economia sembrano, sinora, dar ragione agli “unionisti”: da quando la campagna per l’indipendenza è arrivata al massimo, oltre 3.000 imprese hanno trasferito la sede legale fuori dalla regione, e, secondo le stime, il PIL catalano, pur salendo oltre il 2%, nel 2018 per la prima volta sarà sorpassato da quello castigliano. «I leader catalani- ha detto Oriol Bartolomeus, docente di Scienze Politiche all’ Università autonoma di Barcellona,” avevano puntato su due elementi per sfondare il muro di Rajoy: il sostegno dei poteri economici catalani e il riconoscimento almeno parziale da parte della comunità internazionale. Ma hanno sbagliato i calcoli e sono rimasti soli a combattere la loro battaglia, senza armi».

 

di Fabrizio Federici

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