K metro 0 – Bruxelles – A partire dal 2009, il ricorso ai contratti a termine e part time è in deciso aumento in gran parte dei paesi europei poiché, in una situazione di incertezza economica prodotta dalla recessione, rappresentano un efficace mezzo «per rispondere a fabbisogni temporanei di manodopera». Sempre più spesso, però, datori
K metro 0 – Bruxelles – A partire dal 2009, il ricorso ai contratti a termine e part time è in deciso aumento in gran parte dei paesi europei poiché, in una situazione di incertezza economica prodotta dalla recessione, rappresentano un efficace mezzo «per rispondere a fabbisogni temporanei di manodopera». Sempre più spesso, però, datori di lavoro e aziende, sia nel pubblico sia nel privato, finiscono per abusare di questa tipologia contrattuale traducendola in precariato, con conseguenze rilevanti anche sotto il profilo del reddito e dell’insicurezza nel programmare il proprio futuro. E tra il mercato che chiede maggiore flessibilità e i lavoratori che si aspettano più garanzie, gli effetti negativi di questo meccanismo critico si abbattono soprattutto sui giovanissimi: secondo il Rapporto 2014 sul precariato in Italia e in Europa tra gli under 25, infatti, il tasso di disoccupazione giovanile nell’Europa a 27 è passato dal 15,5% del 2007 al 22,8% del 2012. Eurostat, inoltre, riporta che nel 2016 gli impiegati temporanei in Europa erano 26,4 milioni, il 14,2% del totale degli occupati (15-64 anni), con un’incidenza lievemente superiore per le donne (14,7) rispetto agli uomini (13,8); in alcuni paesi questi numeri arrivano a raddoppiare: in Polonia si raggiunge il 27,5% (1 lavoratore su 5), seguono Spagna (26,1), Portogallo (22,3), Croazia (22,2) e Paesi Bassi (20,6), mentre sono sotto la soglia del 5% Romania (1,4), Lituania (2,0), Lettonia ed Estonia (3,7) e Bulgaria (4,1). L’Italia si attesta al 14%.
È per questo che il Parlamento europeo, nella seduta di giovedì 31 maggio 2018, ha adottato una risoluzione con cui chiede con forza ai paesi membri di «combattere in modo efficace» le forme di precariato, come i contratti “a zero ore” (accordi di lavoro che non prevedono un numero minimo di ore garantite), raggiungere parità di retribuzione e assistenza e un miglioramento degli standard occupazionali e salariali. La risoluzione, che non ha valore di legge, segue le numerose richieste di intervento, circa 80, sollecitate da vari paesi dell’Unione tra cui Italia, Spagna, Portogallo, Polonia, Slovenia, Grecia e Francia. Soprattutto, si ribadisce quanto stabilito dalla Corte di giustizia europea con sentenza del 26 novembre 2014, chiamata a pronunciarsi su un caso italiano in materia di «prevenzione del ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato» e le “ragioni obiettive” che li giustificano: «i contratti a tempo determinato ripetuti dovrebbero essere tramutati in contratti a tempo indeterminato», raccomanda la Corte Ue, chiedendo che questa interpretazione venga rispettata da tutti i paesi dell’Unione e «coerentemente inserita nei rispettivi quadri giuridici». La vicenda riguardava alcune dipendenti che avevano fatto ricorso contro il ministero dell’Istruzione presso il Comune di Napoli, dove tra il 2003 e il 2012 erano state assunte come docenti ed educatrici attraverso contratti a termine stipulati in successione, senza mai ottenere una stabilizzazione e la conseguente immissione in ruolo. Chiedevano inoltre il pagamento degli stipendi non corrisposti nei periodi tra la scadenza di un contratto e l’entrata in vigore di quello successivo.
L’urgenza di adottare nuove regole sul lavoro temporaneo per contrastare il precariato si accompagna inoltre alla revisione in corso della Working Time Directive, direttiva sull’orario e condizioni di lavoro (2003/88/CE) che impone ai paesi membri di rispettare gli standard minimi europei sul limite dell’orario settimanale, turni di riposo, ferie e tutele extra per alcuni settori più esposti a rischi e difficoltà come il lavoro notturno, il trasporto passeggeri, la pesca marittima, il personale medico. La direttiva è passata al vaglio della Commissione per una valutazione più dettagliata e aggiornata, che tenesse conto degli aspetti sia sociali sia economici, dopo una consultazione in due fasi iniziata nel marzo 2010: la decisione congiunta di dare il via ai negoziati presa nel dicembre 2011 ha portato ad ampi dibattiti, ma non è stato raggiunto alcun accordo. Alle consultazioni hanno partecipato i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro; molti hanno concordato sul fatto che le norme Ue vanno riviste, ma le opinioni sul tipo di modifiche necessarie divergono ed è su questo che si intende ora mediare per arrivare a una soluzione condivisa.
di Anna Maria Baiamonte