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Cannes numero 71: un cinema tutto da scoprire

Cannes numero 71: un cinema tutto da scoprire

K metro 0 – Cannes – Riesce in un modo o nell’altro sempre a stupire, il festival di Cannes. In un’edizione che alla vigilia poteva sembrare “di passaggio”, con pochi nomi di maestri del cinema riconoscibili, consacrati e popolari, contrariamente ad altri anni in cui nel concorso ed in altre sezioni di registi star e

K metro 0 – Cannes – Riesce in un modo o nell’altro sempre a stupire, il festival di Cannes. In un’edizione che alla vigilia poteva sembrare “di passaggio”, con pochi nomi di maestri del cinema riconoscibili, consacrati e popolari, contrariamente ad altri anni in cui nel concorso ed in altre sezioni di registi star e attori di fama mondiale ce n’erano almeno uno al giorno, la Croisette è riuscita a ribaltare la prima impressione, presentando molti film di altissima qualità anche se privi di grandi firme. Un bel messaggio, dunque, quello che lancia Cannes numero 71: c’è un cinema tutto da scoprire, almeno per il grande pubblico, e ora il festival spinge il mercato a fare la sua parte, a portarlo nelle sale.

E un senso di gradevole stupore arriva anche dal verdetto della giuria, che è riuscita a non allinearsi al conformismo delle aspettative: non ha vinto una donna! Nell’anno in cui tutti pronosticavano una Palma d’oro al femminile – andata al bel film giapponese Un affare di famiglia, di Hirokazu Kore’eda – la giuria che presentava due rarità, presidente donna, l’attrice Cate Blanchett, e una maggioranza di donne, ha voluto sfuggire a questo imperativo dettato dai tempi che corrono e dalle circostanze. E dire che almeno due su tre film in concorso firmati da registe, l’italiano Lazzaro Felice, di Alice Rohrwacher, al quale è andato il premio per la sceneggiatura, e il libanese Capharnaum, di Nadine Labaki, premio della giuria, potevano meritare il massimo riconoscimento. Dalla parte della donna con l’alloro del primo premio c’era anche la cruda statistica: è da 25 anni che una donna non vince il festival di Cannes, accadde a Jane Campion con Lezioni di piano.

E allora dalla Croisette un altro messaggio di grande significato: le donne vogliono essere riconosciute per il loro valore, e non in quanto donne, per categoria e per “quote”. Molto forte anche l’eco lasciata dal festival per l’impegno in favore della libertà dell’arte e del pensiero, con l’invito in concorso di due registi dissidenti che i rispettivi regimi costringono a non poter uscire dal loro paese, il russo Kirill Serebbrennikov, che ha realizzato il bel film Leto (Estate), ambientato negli anni della plumbea Unione Sovietica, ma in filigrana autobiografico e con riferimenti all’attualità, e l’iraniano Jafar Panahi, premiato per la sceneggiatura con il film 3 faces.

In primo piano a Cannes anche le guerre, come quella silenziosa che si combatte da anni tra nazionalisti e ribelli filorussi nella regione dell’Ucraina del Donbass, con il film di Sergei Loznitsa. 

Altre guerre senza fine, in Medio Oriente, con il libanese Capharnaum, della Labaki, bambini vittime della cecità e dell’egoismo degli adulti, profughi senza terra, la violenza delle armi.

E c’è poi la guerra non combattuta, di per sé non cruenta eppure forse altrettanto percorsa da ferocia, quella guerra che per consolarci chiamiamo fredda, nell’importante film polacco Cold War, di Pawel Pawlikovski, ambientato negli anni ’50 tra Polonia, Parigi e mezza Europa, una guerra che oltre alle libertà ghermisce anche sentimenti tra i più preziosi, un amore che diventa impossibile. A questo film è andato il premio per la regia. L’attualità delle tensioni internazionali e i tentativi di distensione nel film della Corea del Sud Gongiak, di Yoo Jong-bin. Seppure ambientato negli anni ’90, quando un militare sudcoreano venne fatto infiltrare tra i vertici politici e militari della Corea del Nord, già allora proiettata a diventare potenza nucleare, è evidente che il film parla dell’oggi.

Tra i temi ricorrenti nei film, un primo piano spetta anche alla famiglia e alla ricerca delle proprie radici.  Proprio il valore e il bisogno di famiglia, è il tema portante del film che ha vinto la Palma d’oro, Un affare di famiglia, accanto a una realtà sociale giapponese che poco conosciamo, quella di chi vive ai margini, alla periferia di Tokio, lontana anni luce dal benessere di cui i Paese porta vanto, quella marginalità di chi vive in miseria, in una sopravvivenza affidata agli espedienti. L’essenzialità dei legami familiari si ritrova anche nel film di Valeria Golino Euforia, dove i due fratelli dalle vite e caratteri opposti Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea si ritrovano in seguito a una malattia di evidente metafora. La famiglia tema dominante in un altro film, lo spagnolo Todos lo saben, di Asghar Farhadi, in cui Penelope Cruz e suo marito Javier Bardem ritrovano un segreto legame di sangue custodito in un vecchio passato.

Ed è alla ricerca dei propri familiari, che lo avevano abbandonato da bambino, il lebbros del toccante film egiziano Yomeddine, di Abu Bakr Shawky: e un poveruomo per ritrovarli percorre mezzo Egitto in groppa ad un asino, incontrando diseredati e reietti della sua condizione. La famiglia tema dominante in un altro film, lo spagnolo Todos lo saben, di Asghar Farhadi, in cui Penelope Cruz e suo marito Javier Bardem ritrovano un segreto legame di sangue custodito in un vecchio passato.

E c’è poi l’attualità del razzismo, quel fenomeno che sotto le spoglie più diverse di tanto in tanto si riaffaccia in Europa come in altri continenti, con il film sul Ku Klux Klan di Spike Lee, Gran premio speciale della giuria. Ambientato negli anni ’70, c’è grande tensione nello stile tipico del regista, con la sua ironia, il sarcasmo, la sua radicalità. E tuttavia non mancano un paio di riserve: i razzisti ridotti a semplici seppure pericolose macchiette, sprovveduti, ignoranti, in preda a un fanatismo epidermico, isterico, esasperato e ridicolo, e un finale fin troppo didascalico e non necessario, con fatti e personaggi delle cronache dei nostri giorni.

Tra i più interessanti temi del festival, c’è quello del film del Kenia, censurato in patria, Amiche, di Wanuri Kahiu, dove due ragazze che scoprono di amarsi sono vittime di esclusione e intolleranza.

Ed ecco il mite personaggio di Dogman, l’ottimo film di Matteo Garrone – il protagonista Marcello Fonte premio come migliore attore – in un ambiente in cui il più forte soggioga sempre, una vita di sopraffazione senza fine dalla quale non c’è uscita, nonostante la ricerca di un vano tentativo di riscatto che cade nell’indifferenza. E la bella fiaba contemporanea di Lazzaro Felice, l’opera affascinante di Alice Rohrwacher, con il suo personaggio che tutti sfruttano per la sua bontà assoluta, l’innocenza ineffabile e disarmante, una figura di una semplicità che non è di questo mondo.  La durezza dei rapporti tra un’imprenditoria senza scrupoli e la classe dei lavoratori, il capitalismo selvaggio globalizzato nel bel film francese En guerre, di Stéphane Brizé.

E c’è l’ennesimo capolavoro del grande vecchio Jean-Luc Godard che con Le livre d’image consegna il suo testamento; cinema puro fuori dalle convenzioni sui drammi del nostro tempo, le guerre, la spregiudicata morale dei crimini di Stato, lo scontro cruento tra la classe dei ricchi e quella dei poveri. A Godard la giuria, essendo fin troppo facile e scontato fargli vincere il festival, ha attribuito una Palma d’oro speciale.

E non è mancato il film scandalo, come c’era da aspettarsi dal danese Lars von Trier: il delitto come opera d’arte, il crimine più efferato come atto estetico, l’idea che ci possa essere una “grandezza” nel compiere il male, fino in fondo, fino ad una abiezione senza limiti, nel discusso e programmaticamente sgradevole film The house that Jack Built. Un film stroncato dai più, gettato nel cestino, abbandonato durante la proiezione da molti spettatori sconcertati e nauseati, e che tuttavia non lascia indifferenti.

E non ultimo tema, Cannes 2018 ha fatto la scelta, alienandosi le simpatie degli americani che ormai da qualche anno sembrano preferire Venezia, di sbarrare il concorso ai film di Netflix, dopo aver chiesto alla catena televisiva di aprire ai film la strada delle sale. La risposta è stata il ritiro dal festival di tutti i film con quel marchio. Nel tempo in cui il cinema dal grande schermo tende ormai a trasferirsi in Tv e agli apparecchi portatili perdendo così la sua essenza, Cannes chissà se per calcolo, per necessità, o per meditata scelta di principio, ha fatto la sua parte.

 

di Nino Battaglia

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